martedì 12 maggio 2020

I DOC: MARINA ABRAMOVIC:THE ARTIST IS PRESENT, LA VITA COME OPERA D'ARTE

(Clicca sulla locandina per vedere il documentario sottotitolato in italiano). 

USA, 2012
99'
Regia: Matthew Akers
Con: Marina Abramović, Ulay, Klaus Biesenbach.


In balia del pubblico per delle ore, consentendo ad esso di usare degli strumenti di piacere o di dolore sul suo corpo inerme.

In mezzo ad una stella a cinque punte infuocata posata per terra, dove prima aveva bruciato unghie e capelli che si era tagliata.

Intenta a spazzolarsi in capelli in modo sempre più deciso fino a sanguinare e fino a sfregiarsi il volto.

Impegnata a incidere sul proprio corpo nudo, con un rasoio, una stella a cinque punte.

Seduta su una montagna di ossa di bovino, mentre le pulisce maniacalmente per delle ore.

Con il compagno di allora, l'artista tedesco Ulay, azioni estreme come: far passare la gente per una porta stretta, tra loro che sono nudi; stare per delle ore in piedi, di spalle, con i rispettivi capelli intrecciati; prendere la rincorsa e scontrarsi violentemente; spingere a sé un arco mentre lui incocca la freccia: se lui molla, la freccia le colpirà il cuore; attraversare l'una da una parte l'altro dall'altra la Grande Muraglia Cinese, incontrandosi nel mezzo e lasciandosi, ponendo così fine ad una storia d'amore e collaborazione durata 12 anni.

Esibizionismo, autolesionismo, follia?

Una forma di voyeurismo per pseudo-intellettuali snob, come quella descritta dalla famosa scena di La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino?

O arte?

E se parliamo di arte, che senso ha la performance art, della quale la protagonista delle esibizioni succitate, Marina Abramović, è la più famosa rappresentante?






Il documentario che stiamo recensendo, in questo caso, è illuminante per capire la figura di una delle artiste più discusse e controverse degli ultimi 50 anni circa.

Partendo dalla preparazione e dalla realizzazione di quella che è finora una delle sue performance più ambiziose e mainstream, The Artist Is Present, appunto - consistente nello stare seduta su una sedia per delle ore (precisamente 736) e per diversi mesi davanti ad un'altra sedia nella quale di volta in volta si siede qualcuno - che ha avuto luogo al Museum of Modern Arts (familiarmente, MoMA) di New York nel 2010 (tra i visitatori, una nostra vecchia conoscenza), esso ne racconta la vita, le opere, gli amori, le inquietudini, le difficoltà (anche di farsi accettare come artista).

Un vissuto che essa è riuscita a rendere arte con l'utilizzo del proprio corpo, divenuto strumento per veicolare messaggi.

Non che questo sia una novità - basti ricordare gli happening dadaisti di un secolo fa o la "vita come un'opera d'arte" di Gabriele D'Annunzio.

Ma pochi, prima di lei, sono riusciti a trattare la propria fisicità in modo così duro e scioccante per denunciare i mali della società - violenza, guerra, mercificazione femminile...

Nessuno in modo così efficace e viscerale.

Donna dal grande carisma e temperamento, scopriamo così che essa ha vissuto un'infanzia nella quale non si è sentita amata - i suoi genitori, già partigiani jugoslavi titini non le dimostravano molto affetto - ma nella quale è stata educata rigidamente, quasi militarmente.

Cosa che le è servita per sviluppare in seguito un rigore, una forte autodisciplina e una resistenza fisica che sono poi risultati indispensabili per le sue performance, volte spesso a esplorare i limiti del corpo umano e a creare un rapporto anche fisico con lo spettatore, sul quale esse hanno sovente un forte impatto emotivo.

Marina Abramović, col tempo, ha reso le sue esibizioni più scenografiche, più teatraleggianti, è riuscita a travalicare l'ambito artistico e a diventare un'icona pop - tra i suoi tanti fan nello star system, citiamo per esempio Lady Gaga - e un personaggio riconoscibile persino nella mondanità - la ricordiamo come giurata alla Mostra del Cinema di Venezia 2012; nel documentario la si vede in compagnia di Riccardo Tisci, celebre art designer, al tempo direttore creativo della maison Givenchy.

Il suo vecchio sodale Ulay (scomparso lo scorso marzo) l'ha accusata di essere diventata una "diva" - nonostante i momenti con lui siano i più emotivamente intensi del documentario, i due per anni se le sono date di santa ragione a suon di carte bollate: la frecciatina non è nulla in confronto a quello che si sono detti nei tribunali.

Ma è indubbiamente grazie alla sua visibilità che la performance art è divenuta, se non popolare, almeno riconosciuta come una forma d'arte con una propria dignità e ragione d'essere e non una stravaganza fine a se stessa, effimera e destinata a non lasciare traccia.

Se poi i suoi emuli rischiano di sembrare dei personaggi degni di Sorrentino, beh, questo è un altro discorso.




Etichette: , , , , , , , ,

0 Commenti:

Posta un commento

Iscriviti a Commenti sul post [Atom]

<< Home page