CINEMA A BOMBA!

mercoledì 29 marzo 2017

OSCAR 2017. SILENCE, PARLA SCORSESE

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

USA, 2016
161'
Regia: Martin Scorsese
Interpreti: Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Ciarán Hinds, Issei Ogata, Yōsuke Kubozuka, Tadanobu Asano, Shinya Tsukamoto, Yoshi Oida


Giappone, XVII secolo.
Gli shogun (la casta dominante,) stanno perseguendo i Cristiani presenti nel Paese, per la maggior parte contadini di villaggi remoti: li torturano e li obbligano ad abiurare, pena una morte lenta e tra mille tormenti (fisici e psicologici).

Due giovani gesuiti, padre Rodrigues (Garfield) e padre Garupe (Driver), decidono di andare a cercare il loro mentore, padre Ferreira (Neeson), del quale sanno poco o nulla.
È vero, come dicono, che abbia rinnegato la propria fede? È ancora vivo?

Affronteranno una realtà ancora più dura di quanto pensassero.






Il 24° lungometraggio di Martin Scorsese è la realizzazione di un progetto dalla gestazione pluridecennale: l'adattamento di un romanzo storico nipponico del 1966 scritto dal cattolico Shūsaku Endō (da molti considerato il Graham Greene del Sol Levante per affinità stilistiche, tematiche e biografiche).

In forma epistolare, in esso vengono trattati i tormenti di uomini che devono scegliere se venire meno alla propria fede e salvare vite umane (anche le proprie), oppure scegliere di essere coerenti e condannare di conseguenza altre persone al martirio e alla gloria di Dio.

Bella sfida per il cineasta italo-americano, che riguardo al Cattolicesimo ha sempre avuto un rapporto contrastato e ambivalente: in molte sue opere si sente una fascinazione per il sacro, per il bene; ma nello stesso tempo si avverte una presa di distanza e una posizione critica.

L'aver voluto presentare questa pellicola in anteprima ai Gesuiti e a Papa Francesco è forse segno, però, che certe rigidità e diffidenze sono venute meno e che si tratti di un ulteriore passo verso la riscoperta della propria fede.

Non sfugge il fatto che questa pare essere un'opera molto personale, pensata più per sé e per un pubblico che ha più dimestichezza di concetti quali "peccato", "colpa", "misericordia", "martirio", che per una platea più ampia.

Scarso il successo al botteghino, mentre la critica, più benevola, si è soffermata maggiormente sulla maestria registica, sulla splendida fotografia di Rodrigo Prieto ( Argo, The Wolf of Wall Street, The Audition) - non per niente candidata all'Oscar, ingiustamente unica nomination per la pellicola - , sulle scenografie e costumi dei sempre ottimi Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo (coppia da ben tre Oscar, di cui l'ultimo nel 2012), sul montaggio di Thelma Schoonmaker (Leone d'oro alla carriera a Venezia 2014), piuttosto che sulla storia in sé - decisamente drammatica.

Il fatto è che Silence è impegnativo e talmente ricco di temi da prestarsi a numerose letture: è un pugno nello stomaco che fa riflettere, che lascia mille interrogativi, mille dubbi sull'interpretazione di ciò che viene narrato - non propriamente un film d'intrattenimento, quindi.

A titolo di esempio, il personaggio di Kichijiro (il malpresissimo accompagnatore dei due giovani Gesuiti interpretato da Kubozuka, che era nel cast di Himizu, in concorso alla Mostra di Venezia 2011) - senza spoilerare nulla - è davvero un disgraziato da disprezzare? O è un uomo che, pur conscio dei propri (tanti) limiti, ciononostante (e forse proprio per questo) ha bisogno del conforto della fede?
Può essere ridotto a macchietta uno che si chiede umilmente "Dov'è il posto per un debole come me in un mondo come questo?", domanda che può fornire in fondo una delle chiavi di lettura per comprendere ciò che vuole esprimere il regista?

In realtà, nessuno dei personaggi principali è monodimensionale.
Affidarli ad attori che potessero coglierne le sfumature era pertanto una necessità.

Nella parte dei due giovani sono stati scelti due interpreti che sono tra i più apprezzati della loro generazione.

Andrew Garfield, oltre ai due The Amazing Spider-Man, si è fatto notare in The Social Network (nomina come non protagonista ai Golden Globe 2011) e, più recentemente, in La Battaglia di Hacksaw Ridge (presentato a Venezia 2016, gli è valso la seconda nomination ai Globes quest'anno e la candidatura ai recenti Academy Award come attore protagonista).
Offre una prova convincente e matura, riuscendo così a incarnare efficacemente i tormenti del suo personaggio.

Adam Driver, per molti, è l'odiato Kylo Ren di Star Wars: Il Risveglio della Forza, ma noi lo ricordiamo anche come vincitore della Coppa Volpi come miglior attore alla Mostra di Venezia nel 2014 per Hungry Heart di Saverio Costanzo.
Qui conferma le sue doti recitative.

Stesso riconoscimento lo aveva vinto anche Liam Neeson (nel 1996, per il Michael Collins di Neil Jordan che si era aggiudicato anche il Leone d'Oro).
Finalmente il divo irlandese si ricorda di essere un buon attore: tra un film d'azione e l'altro ci eravamo scordati delle sue 3 nomine ai globi d'oro e della candidatura all'Oscar (per Schindler's List).

Per quel che riguarda l'adeguato cast nipponico, se vi state chiedendo dove avete già visto Tadanobu Asano la risposta è... in Thor e Thor: The Dark World; Issei Ogata e Yoshi Oida sono attori noti in patria, mentre Shinya Tsukamoto è un regista famoso in Giappone per film di genere cyberpunk.

Ma ciò che più emerge nel film è il silenzio, che non è solo reso da una colonna sonora ridotta ai minimi termini, ma anche da un senso di attesa, di sospensione, che permea tutto il film.

Un silenzio che rappresenta il silenzio di Dio di fronte alle sofferenze dei suoi fedeli, ma non una Sua assenza: è il dolore e il pianto senza voce di un padre che vede i propri figli sofferenti a causa dei fratelli, una muta condivisione dei loro strazi e tormenti,

E in silenzio è l'atteggiamento nel quale mettersi per cercare di rispondere ai tanti interrogativi che il film di Scorsese pone.

Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall'anima. [San Giovanni della Croce]





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lunedì 27 marzo 2017

OSCAR 2017. LION-LA STRADA VERSO CASA, GRAZIE GOOGLE EARTH!

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

Australia/USA, 2016
129'
Regia: Garth Davis
Interpreti: Dev Patel, Sunny Pawar, Nicole Kidman, Rooney Mara, David Wenham, Priyanka Bose


Il piccolo Saroo (Pawar), nato in un villaggio indiano da una famiglia povera, un giorno decide di accompagnare l'adolescente fratello maggiore al lavoro.

Arrivano in treno di notte ad una stazione. Fa buio e freddo.
Il piccino, assopitosi, rifiuta di svegliarsi ed è quindi lasciato lì dal fratello, che gli promette allora di venirlo a prendere più tardi.
Svegliatosi, però, decide di mettersi al riparo nel vagone di un treno, che al mattino parte e dopo un lungo viaggio senza fermate arriva a Calcutta.

Nella caotica metropoli, il bimbo si perde, non sa come tornare a casa (non sa neanche bene come si chiami il suo villaggio), non parla neppure la lingua del posto (usa l'hindi, mentre lì parlano il bengali), e alla fine, dopo una serie di vicissitudini, finisce in un orfanotrofio.
Prima di essere adottato e cresciuto amorevolmente da una coppia senza figli della Tasmania (la Kidman e Wenham).

Diventato un giovane uomo (Patel), Saroo diventa ossessionato dalla ricerca delle proprie radici.
Ma tutto ciò che ha sono solo pochi dettagli e ricordi.






Quante volte abbiamo utilizzato Google Earth o Google Maps per cercare posti famigliari, per calcolare il percorso più comodo o veloce per giungere ad una destinazione, per guardare il mondo dall'alto?
Il protagonista di questa vicenda vera se n'è servito, invece, per ricostruire la prima parte della propria vita.

Da questa esperienza incredibile è nato un libro di successo che è diventato questo film (il titolo viene spiegato solo alla fine), diretto da un esordiente australiano e interpretato da attori indiani assieme ad una grande diva, Nicole Kidman, e a buoni attori del calibro di Dev Patel (il protagonista di The Millionaire di Danny Boyle, vincitore di ben 8 Oscar nel 2009, tra i quali film e regia), Rooney Mara (The Social Network; Millennium-Uomini che odiano le donne, per il quale ha ricevuto una nomina agli Oscar 2012 come migliore attrice; Lei-Her; Carol, altra nomination nel 2016, come non protagonista), David Wenham (Faramir in due film di Il Signore degli Anelli, Le Due Torri e Il Ritorno del Re; Delios in 300).

E questo film ha commosso mezzo mondo e raccolto consensi e premi ovunque.
Quattro nomine ai Golden Globe, 6 agli Oscar ( film, attore non protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura non originale, fotografia, colonna sonora) e particolarmente apprezzate le interpretazioni del cast (soprattutto della Kidman), la regia di Garth Davis (che, lo sottolineiamo, è un esordiente: precedentemente, per lui, solo spot), la colonna sonora e soprattutto la vicenda.

Lion è quindi il solito film-strappalacrime-tratto-da-una-storia-vera?
Non esattamente.
Non solo, almeno.

Ci sono due parti distinte (la trama si dipana infatti in modo lineare, con pochi flashback).
Nella prima, che narra di Saroo bambino (azzeccata la scelta dell'espressivo e tenero Sunny Pawar), si tratta di un tema quale quello della situazione drammatica dei bambini in un Paese del cosiddetto Terzo Mondo, tra povertà, analfabetismo, abbandono, sfruttamento minorile.
A tal proposito, lodevole l'iniziativa dei produttori della pellicola, che hanno promosso una raccolta fondi per aiutare le associazioni umanitarie che si occupano dei bambini in difficoltà nel Subcontinente e in altre parti del globo.

La seconda, con il protagonista cresciuto, sviluppa quello della "casa" - la mia casa è dove sono nato o dove sono cresciuto? - e della propria identità, dilaniante per una persona che ha perso i propri affetti in tenera età - chiedendosi in continuazione che fine avranno fatto madre e fratelli lontani, forse persi per sempre -, che è cresciuto in una famiglia che non è quella biologica e in un ambiente così diverso da quello originario ma nel quale ha stretto rapporti interpersonali di amicizia e amore.

Il distacco dalla propria terra è stato per Saroo uno shock, ma tornarci sarà un trauma ancora maggiore: in Australia, pur vivendoci ed essendo riuscito ad integrarsi, si sente diverso; in India ritrova le proprie radici, ma ormai non è più parte di quel mondo.

C'è poi la sotto-trama del rapporto con Mantosh - che ha dei problemi psichiatrici e che è stato anch'esso adottato dalla famiglia tasmaniana -, che però Saroo non considera come fratello (ne ha già uno in India) ma al quale è molto legato.
I problemi che il secondo venuto crea, rappresentano l'altra faccia dell'adozione, quella che non è tutta rose e fiori.

La sensibilità, la sobrietà, il realismo con i quali sono stati trattati questi argomenti è encomiabile perché evita la facile trappola del mélo, così come il lieto fine non così lieto che lascia al pubblico l'amaro in bocca.

Insomma: se volete vedere Lion, preparate i fazzoletti.





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sabato 25 marzo 2017

OSCAR 2017. LA BATTAGLIA DI HACKSAW RIDGE, LA GUERRA DI MEL

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

USA/Australia, 2016
139'
Regia: Mel Gibson
Interpreti: Andrew Garfield, Teresa Palmer, Luke Bracey, Vince Vaughn, Sam Worthington, Hugo Weaving, Rachel Griffiths, Nathaniel Buzolic, Ryan Corr.


Desmond Doss (Garfiled), cristiano avventista. è un giovane fermamente contrario ad uccidere il prossimo.

Quando gli USA decidono di entrare nella Seconda Guerra Mondiale, egli decide di arruolarsi per dare il proprio contributo, a condizione di non imbracciare un fucile, ma operando come soccorritore militare.

La sua obiezione di coscienza non verrà presa bene dai commilitoni e dai propri superiori; ma, impegnato nella difesa della scarpata di Maeda (la cosiddetta "Hacksaw Ridge" - letteralmente, la cresta del seghetto - del titolo) durante la massacrante battaglia di Okinawa (Giappone), egli riuscirà a salvare la vita di molti dei suoi compagni.

Alla fine delle ostilità verrà premiato con la medaglia d'onore, la più alta decorazione militare assegnata dal governo statunitense.
Senza aver mai sparato un colpo d'arma da fuoco.






Finalmente è tornato il Mel Gibson regista!

Ed è tornato alla grande con una pellicola che ha entusiasmato il pubblico già dal suo esordio alla Mostra del Cinema di Venezia 2016.

Sull'onda di un consenso crescente (anche da parte della critica), sono arrivati anche i riconoscimenti: 3 nomine ai Golden Globe 2017 e 6 agli Oscar - film, regia, attore protagonista (Garfield), montaggio sonoro, sonoro e montaggio.

Alla fine della cerimonia di premiazione degli Academy Award, due sono state le statuette vinte, per le ultime due categorie.

I contributi tecnici sono eccellenti, in effetti (Oscar strameritati), e il cast è incisivo: bravo Andrew Garfield - che col tempo sta facendo dimenticare il suo Spider-Man - ma anche la bella Teresa Palmer (già vista in Knight of Cups), Sam Worthington (Avatar, Texas Killing Fields), l'australiano Luke Bracey e un insolito Vince Vaughn se la cavano egregiamente.

La regia di Mel Gibson, poi, è una garanzia: riesce a incollare allo schermo lo spettatore e a coinvolgerlo emotivamente in modo efficace.

Gli scorsi anni del divo avevamo sentito parlare solo per gli innumerevoli scandali e per una serie di film interpretati non proprio di eccelsa qualità.
Ma come cineasta ha sempre saputo dimostrare un talento e una sensibilità eccezionali.

Molti critici gli imputano un'eccessiva violenza nelle sue pellicole, spesso additata come fine a se stessa.
Soffermarsi sulle scene brutali, secondo noi, non rende giustizia alla sua narrazione e ai temi trattati, che sono profondi e affrontati con rigore.

Ad esempio, quello della morte, fil rouge che in un modo o nell'altro unisce tutte le sue opere.

In L'Uomo Senza Volto (suo esordio dietro alla macchina da presa nel 1993), l'aver causato la morte in un incidente segna indelebilmente la vita del protagonista, che cerca poi di redimersi.
In Braveheart - 5 Oscar nel 1996, tra i quali film e regia allo stesso Gibson - la morte è l'inevitabile destino al quale va incontro l'eroe William Wallace, destinato però a rimanere nella Storia.
In La Passione di Cristo (2004) la morte è sconfitta dalla resurrezione di Gesù.
In Apolcalypto un giovane indio scappa da una spietata caccia all'uomo intrapresa da un guerriero Maya che vuole ucciderlo; il tutto alla vigilia della fine del loro mondo.

E in La Battaglia di Hacksaw Ridge la morte incombe sui soldati in guerra.

Quest'ultima non è trattata con indulgenza: è morte, appunto, distruzione, annichilimento, mutilazioni, sangue, violenza, disperazione, terrore.

Eppure...
Eppure, anche in un evento così traumatico, resiste qualche barlume di umanità, alimentato dalla fede: il soldato Doss, considerato un vigliacco, a rischio della propria esistenza non esiterà a gettarsi nel pericolo pur di salvare delle vite.

Il suo esempio sarà di conforto per i compagni a non lasciarsi sopraffare dal panico e gli guadagnerà il meritato rispetto.

Quante e quali cose può fare un uomo con la speranza in Dio, quante difficoltà può superare affidandosi a Lui...

Mel, se i tuoi film sono sinceri, ricordati che non sarai mai solo nella lotta contro i tuoi demoni.





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domenica 19 marzo 2017

OSCAR 2017. MOONLIGHT, E SE SI TRATTASSE DI UN MALINTESO?

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

USA, 2016
111'
Regia: Barry Jenkins
Interpreti: Trevante Rhodes, Ashton Sanders, Alex Hibbert, Mahershala Ali, Janelle Monáe, Naomie Harris, André Holland


3 capitoli della vita di un afroamericano povero di Miami, che corrispondono ad altrettanti periodi della sua crescita.

Chiron è un bimbo (Hibbert) gracile, piccolino, introverso e di poche parole, senza padre (andato via?) e con una madre (Harris, la Miss Moneypenny nei film di James Bond interpretati da Daniel Craig) tossicodipendente e anaffettiva.

Lasciato solo a se stesso, viene bullizzato dagli altri bambini e trova conforto nella compagnia dello spacciatore Juan (Ali) e della sua donna Teresa (Monáe).

Da adolescente (Sanders), la sua situazione peggiora con il perpetuarsi di atti di sopraffazione e scherno nei suoi confronti sempre più pesanti.

Ha un casuale e fugace momento di intimità con l'amico di sempre Kevin (niente di troppo scabroso, eh...), che però successivamente tradisce la sua fiducia.

Sconvolto e fuori di sé, Chiron decide di sfogare la sua frustrazione aggredendo in classe il bullo più prepotente e finirà nei guai.

Trasferitosi ad Atlanta e divenuto un giovane uomo (Rhodes), ritorna nella sua città, ritrova Kevin e...






Moonlight, con un budget di soli 1,5 milioni di dollari (quello di Pirati dei Caraibi-Oltre i Confini del Mare, il film più costoso in assoluto, era di oltre 400 milioni, per darvi un'idea), è la pellicola più economica ad essere riuscita ad aggiudicarsi l' Oscar per il miglior film - dopo aver vinto precedentemente il Golden Globe com migliore pellicola drammatica.

Ce l'ha fatta al termine di una troppo politicizzata e mal organizzata cerimonia di premiazione e di numerosi riconoscimenti raccolti precedentemente.

Le associazioni LGBT e i liberal di tutto il mondo, dopo averlo pompato per mesi, hanno salutato con entusiasmo la sua vittoria, considerata la prima di un film apertamente a tematica omosessuale.

Ma se si trattasse di un equivoco?

Di I Segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, per esempio, se ne può parlare tranquillamente come di una storia "gay", narrando esplicitamente di una passione travolgente tra due mandriani.

Lo stesso si può dire di Moonlight?

Il regista Barry Jenkins - giovane (classe 1979) e molto bravo: speriamo di sentirne parlare ancora - lavora per sottrazione sia in fase di regia che di sceneggiatura (per la quale ha vinto una statuetta: la potete leggere qui): fa parlare poco i personaggi e toglie elementi e particolari alla narrazione.

In questo modo, questa diventa meno chiara e più indefinita e suscita più interrogativi che certezze.

Così, Chiron prova veramente un'attrazione verso le persone del suo stesso sesso (in fondo, dopo quella fugace con Kevin, non ha altre relazioni) o il suo è soltanto un bisogno di essere considerato, compreso, trattato con un affetto che nessuno gli ha mai dato?
C'è da considerare anche il fatto che egli non è perseguitato dai suoi aguzzini perché omosessuale (nessuno conosce le sue inclinazioni, né lui le palesa), ma in quanto debole e apparentemente indifeso.

Anche l'ultima scena, nella quale i due amici sono ripresi mentre uno mette la testa sulla spalla dell'altro, non aiuta a dirimere la questione.

Che in fondo non è poi così importante da dirimere, anche perché toglie spazio agli altri temi affrontati: il bullismo, la condizione di degrado alla quale sono spesso condannati a vivere i giovani afroamericani, la solitudine e l'abbandono.

Moonlight è quindi un'opera più ricca e complessa di quanto sia stata superficialmente dipinta ed etichettarla come "pellicola LGBT" l'ha certamente aiutata da una parte, ma fortemente penalizzata dall'altra - nell'interesse del pubblico e negli incassi, tra le altre cose.

Peccato: è una piccola storia, ma raccontata con maestria da Jenkins.
Che riesce a creare un'atmosfera dolente utilizzando le tonalità di blu, colore non scelto a caso: il film è tratto dall'opera teatrale inedita di Tarell Alvin McCraney (ne avevamo già parlato qui, a proposito della candidatura per la migliore sceneggiatura non originale, per la quale poi ha vinto l' Oscar) In Moonlight Black Boys Look Blue, traducibile come "Alla luce della luna i ragazzi neri sembrano blu", dove però "blue" in inglese vuol dire anche "triste, depresso, malinconico".

Buona anche la sua direzione degli attori: il caratterista Mahershala Ali (che molti ricorderanno nella serie tv House of Cards) ha vinto l'Academy Award come attore non protagonista; la Harris è stata nominata come attrice non protagonista; la Monáe, oltre che cantautrice eclettica, dimostra di saper dire la sua anche in campo recitativo.

Azzeccata la scelta degli interpreti di Chiron: credibili i giovani Alex Hibbert e Ashton Sanders, mentre l'ex atleta Trevante Rhodes sarà nel super cast del nuovo film di Terrence Malick Song to Song (precedentemente chiamato Lawless e Weightless)- cast che comprende (a scanso di tagli) Michael Fassbender, Ryan Gosling, Rooney Mara, Natalie Portman, Cate Blanchett, Christian Bale (questi ultimi tre già presenti nel precedente Knight of Cups), Val Kilmer, Benicio del Toro, Patti Smith, Iggy Pop, John Lydon (vi dice niente il nome Johnny Rotten?), i Black Lips e gli Arcade Fire: wow!

Insomma, ci aspettiamo che il talento di Jenkins venga considerato in futuro al netto di valutazioni di correttezza politica e di colore della pelle, sennò ne risentirà la sua carriera e gli si farà un grande torto.





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martedì 7 marzo 2017

OSCAR 2017. LA LA LAND, IL SAPORE AGRODOLCE DEI SOGNI

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

USA, 2016
128'
Regia: Damien Chazelle
Interpreti: Emma Stone, Ryan Gosling, J.K. Simmons, John Legend, Rosemarie DeWitt, Finn Wittrock.


Lei (Emma Stone).
Una ragazza di provincia che sogna di fare l'attrice.
I provini non le vanno bene (ha talento, ma forse non è abbastanza carina), così si mantiene lavorando in un bar.

Lui (Ryan Gosling).
Un malinconico, scontroso, intransigente pianista jazz.
Suonicchia in giro (anche in una cover band!), ma vorrebbe aprire un locale tutto suo dove potersi esibire nel suo repertorio.

Si incontrano a Los Angeles, cominciano a conoscersi, si innamorano.

Nella "città delle stelle" molti sogni si infrangono, solo pochi si realizzano: sarà possibile per loro conciliare i sentimenti con la carriera?






Maxi ingorgo in autostrada: le macchine sono ferme e da ognuna di esse esce musica dall'autoradio.
Una ragazza si stufa, apre la portiera, comincia a cantare e a muoversi seguendo il ritmo.

Senza staccare, si segue le sue evoluzioni, poi si segue un'altra persona che ha deciso di fare lo stesso, poi un'altra, poi un'altra ancora, finché tutti gli automobilisti vengono coinvolti nell'euforia e si mettono a cantare e ballare in modo scatenato.

Quando la musica cessa, ritorna la normalità.

Il film è appena cominciato (questa è la scena iniziale) e già capiamo cosa ci dobbiamo attendere da La La Land: una storia in bilico tra il fantastico e il mondo reale, nella quale la musica ha un ruolo centrale.

Un musical "vecchio stile" zeppo di riferimenti al genere - Cantando sotto la pioggia, Un Americano a Parigi, Les Parapluies de Cherbourg, Les Demoiselles de Rochefort, Sweet Charity, Funny Face, Ginger Rogers e Fred Astaire, Grease, West Side Story tra i modelli - ma dalla sensibilità contemporanea.

L'opera di un regista pieno di immaginazione e talento - tutta la scena sembra girata in un unico piano sequenza, ma non lo è: avevamo visto utilizzare la stessa tecnica da Alejandro González Iñárritu in Birdman (toh, vincitore anch'egli per la migliore regia agli Oscar 2015...).

Un film per sognatori e che parla di sognatori, pulito, garbato, senza volgarità, scene truculente, cinismo.
Solo, con un finale non così scontato e che lascia un po' l'amaro in bocca.

E un successo partito dall'inaugurazione della Mostra del Cinema di Venezia 2016 e arrivato fino alla recente Notte delle Stelle.

Le 14 nomination (raggiunto il primato di Eva Contro Eva nel 1951 e Titanic nel 1998) - per film, regia, attore protagonista, attrice protagonista, sceneggiatura originale, colonna sonora e canzone (2 volte), fotografia, montaggio, sonoro, montaggio sonoro, scenografia, costumi - si sono concretizzate in ben 6 statuette.

Sulla beffa del miglior film abbiamo già parlato nel post precedente: ci è molto dispiaciuto per il fatto increscioso, anche perché il film meritava ampiamente il massimo riconoscimento.

Si consolino i produttori: hanno avuto gloria solo per pochi secondi, ma La La Land resterà comunque negli annali.

In primo luogo, per aver permesso a Damien Chazelle di diventare il più giovane a vincere i prestigioso Oscar per la migliore regia - 32 anni, un mese e qualche giorno: battuto il record di Norman Taurog (anche lui trentaduenne, ma con 7 mesi in più), che resisteva dal 1931!

Poi, per aver portato la prima statuetta ad una delle attrici più apprezzate, talentuose e versatili della propria generazione: Emma Stone (si vedano Magic In The Moonlight e il già citato Birdman).

Peccato per Ryan Gosling: appuntamento rinviato per il bravo interprete di Drive e Le Idi di Marzo.

Stone e Gosling in quest'opera hanno fatto faville; ma insieme i due avevano già recitato, prima in Crazy, Stupid Love del 2011 e poi in Gangster Squad del 2013.
Una coppia cinematografica rodata e di sicuro appeal che speriamo di rivedere ancora unita.

Pensare che non erano neanche le prime scelte: in un primo momento i ruoli erano stati offerti a Miles Teller (protagonista della precedente opera di Chazelle, Whiplash) ed Emma Watson (Hermione Granger nei film tratti dai libri su Harry Potter della scrittrice J.K. Rowlings), che adesso si staranno mangiando le mani.

In piccole parti compaiono anche la brava Rosemarie DeWitt (nipote del campione di pugilato J.J. Braddock e Rachel in Rachel Sta Per Sposarsi di Jonathan Demme, l'autore di Stop Making Sense e Il Silenzio degli Innocenti) e due Premi Oscar - J.K. Simmons (miglior attore non protagonista nel 2015) e John Legend (autore della migliore canzone, nello stesso anno).

La La Land può anche consolarsi con il record di Golden Globe vinti, ben 7 (su 7 nomination!): i premi assegnati dalla stampa estera si confermano più aderenti ai gusti del pubblico rispetto agli ormai troppo politicizzati Academy Award.

E poi con gli innumerevoli riconoscimenti ottenuti e gli ottimi riscontri di critica e - cosa meno scontata - di pubblico (persino in Italia, dove pure il genere non è popolarissimo): l'incasso è stato di quasi 400 milioni di dollari in giro per il mondo a fronte di un budget di circa 30 milioni.

Che ironia, ciò che è accaduto alla pellicola non è molto dissimile dallo svolgimento della sua storia: curiosità all'inizio (un musical che apre la Mostra i Venezia?/gente che canta e balla in uno svincolo autostradale?), attrazione (del pubblico/dei protagonisti), amore, successo, un finale agrodolce.

Eh sì, la vita ti riporta sempre con i piedi per terra.
Ma quanto è bello trovarsi, ogni tanto, con la testa tra le nuvole e a ballare tra le stelle (come succede ai protagonisti in una delle scene più suggestive)...




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mercoledì 1 marzo 2017

OSCAR 2017. POLITICA E GAFFE FANNO CADERE LE STELLE (E NON SOLO QUELLE...)

Dall'alto: Giorgio Gregorini e Alessandro Bertolazzi (primo e secondo da sinistra) premiati per Suicide Squad; Alan Barillaro (a sinistra) ritira il premio per Piper; Damien Chazelle, il più giovane vincitore dell'Oscar per la migliore regia; gli attori premiati (da sinistra: Mahershala Ali, Emma Stone, Viola Davis e Casey Affleck). 


89a edizione degli Academy Award.
L'edizione che ha lanciato Fred Berger, Jordan Horowitz e Marc Platt nell'empireo dei "mainagioia".

Pensate: a presentare l'ultimo premio della serata, il più prestigioso, è stata chiamata una delle coppie più belle e glam della Hollywood anni Sessanta-Settanta: Faye Dunaway e Warren Beatty.

Quest'ultimo ha in mano la busta, la apre, la guarda perplesso, non sa cosa fare.
La porge a lei, che annuncia il miglior film: il favorito della vigilia, La La Land!

I tre di cui sopra, che ne sono i produttori, salgono sul palco e iniziano il loro discorso di ringraziamento.
Ma vengono subito interrotti: c'è stato un errore, la busta è sbagliata (in effetti era un doppione di quella che attribuiva l'Oscar per la migliore attrice protagonista ad Emma Stone. Machecacchio, Warren e Faye, ve ne sarete pure accorti, no?!): il vero vincitore è Moonlight!

Pensate alla delusione di 'sti poveracci, scippati di un sogno per colpa di una maldestra gaffe...






Il degno finale di una cerimonia dagli ascolti scarsi, moscia (Jimmy Kimmel presentatore sottotono, battute su Trump un po' scontate), che molti vorrebbero dimenticare.
A cominciare della produttrice Jan Chapman che - viva e vegeta - si è vista tra le persone decedute nell'omaggio video preparato dall'Academy (si voleva ricordare la costumista Janet Patterson, ma hanno sbagliato foto. Bell'omaggio...).

Altrettanto discutibile è l'aver voluto premiare ad ogni costo il film meno "trumpiano" e più liberal in concorso: Moonlight, diretto da un regista di colore, parla di un afroamericano che cresce in un ambiente degradato e scopre di essere omosessuale.
Pare più un dispetto al neo-Presidente degli Stati Uniti - che con le minoranze è tutt'altro che tenero - che un riconoscimento al valore artistico del film in sé: il fatto che lo si presenti come una bandiera, ossia come il primo film a tema LGBT (acronimo che sta per Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender) a vincere il massimo riconoscimento cinematografico, piuttosto che come racconto di formazione, è emblematico.

Il rischio concreto è che, nel giro di poco, nessuno si ricordi più di questa pellicola e della sua affermazione, com'è già successo al suo predecessore (che è, anche se molti di voi se lo sono dimenticato, Il Caso Spotlight, anch'esso dagli incassi molto modesti).

Il fatto è che l'America è spaccata in due e la metà che ha votato per il pittoresco magnate si sente sempre più distante e meno rappresentata da Hollywood, percepita come centro di un'élite che la disprezza e che utilizza lo showbiz come un'arma politica per colpire in una sola direzione, cercando di imporre la propria visione del mondo e i propri valori.

Se l'Academy continuerà a favorire l'aspetto "politico" dei film piuttosto che quello tecnico-artistico, lo scollamento si farà presumibilmente ancora più drammatico.






La La Land, in effetti, sembrava rappresentare maggiormente un buon compromesso tra intrattenimento e cinema d'autore, essendo una briosa e realistica storia di ambizioni e sogni di due giovani, realizzata con straordinaria maestria e interpretata in modo efficace.

Non per niente la migliore regia è stata proclamata quella di Damien Chazelle, il più giovane regista a vincere la statuetta (32 anni compiuti a Gennaio!) e già apprezzatissimo per il suo precedente - ed in effetti notevole - Whiplash (tenetelo d'occhio: capeggia la cerchia dei Jeff Nichols, dei J.C. Chandor e dei Ned Benson, ossia di un ideale gruppo di cineasti emergenti che in questi anni sta davvero portando nuova linfa ad Hollywood).

Non per niente ha trionfato in quasi tutte le competizioni internazionali, compresa quella dei Golden Globe, in cui i premi sono assegnati dalla stampa estera.

Non per niente ha vinto per fotografia e scenografia, per le belle musiche e la migliore canzone.

Non per niente ha portato il primo (e meritatissimo) Oscar a Emma Stone, che già a Venezia aveva conquistato la Coppa Volpi.

Non per niente La La Land ha incassato nel mondo così tanto e, con 6 premi su ben 14 nomination, è da considerarsi come il vero trionfatore di questa edizione e si candida a rimanere a lungo nella memoria.

Purtroppo ha pagato i sensi di colpa dell'Academy sul tema dei cosiddetti "Oscars so white", la polemica innescata negli scorsi anni - e nell'ultimo in modo particolare - a proposito della scarsa rappresentatività degli afro-americani in nomination e premiazioni.






Polemica che è risultata decisiva per la vittoria di Moonlight e per le sei nomine tra gli attori (zero nel 2016), culminate con l'affermazione più che annunciata tra i non protagonisti di Mahershala Ali (primo interprete di fede islamica ad aggiudicarsi la statuetta) e di Viola Davis (per lei un tifo sfrenato sui social).

Tra gli attori protagonisti l'hanno spuntata Emma Stone, come abbiamo visto, e Casey Affleck.

Il fratello di Ben è passato indenne dalle accuse di molestie sessuali mossegli qualche anno fa da due donne (accuse successivamente ritirate, a titolo di cronaca) e ora per lui è arrivata la definitiva consacrazione, dopo il Golden Globe, grazie al ruolo di uno zio che deve occuparsi del nipote minorenne rimasto orfano nel drammatico Manchester By The Sea, che a sorpresa ha vinto anche il prestigioso riconoscimento per la migliore sceneggiatura originale (andata al regista, Kenneth Lonergan).

Ma Affleck Jr. non è l'unico miracolato: Mel Gibson, personalmente, non ha vinto nulla, ma il suo La Battaglia di Hacksaw Ridge è riuscito a portare a casa due Oscar, per montaggio e sonoro (il montaggio sonoro è stato invece il contentino per Arrival, che partiva da 8 nomine).

A proposito, una menzione speciale va a Kevin O'Connell, tecnico del suono alla sua prima statuetta. Questa era la sua nomination numero 21 (avete letto bene: 21!): meglio tardi che mai!

Nelle agguerrite categorie degli effetti speciali e dei costumi, invece, si sono imposti rispettivamente l'adattamento in live action del cartoon disneyano Il Libro della Giungla (tratto dall'omonimo romanzo di Rudyard Kipling) e Animali Fantastici E Dove Trovarli - il quarto Oscar in carriera della costumista Colleen Atwood, nonché il primo assegnato ad un film della saga di Harry Potter.

Gianfranco Rosi non ce l'ha fatta con il suo documentario Fuocoammare, ma - adesso possiamo dirlo - non è che avesse moltissime chance: ha prevalso O.J.: Made in America e comunque, come abbiamo già visto qui, anche gli altri pretendenti erano piuttosto competitivi.






Al contrario, Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini sono riusciti a conquistare la statuetta per trucco e parrucco di Suicide Squad (cioè, rendiamoci conto: Suicide Squad è un film oscarizzato!).
Una delle poche cose veramente salvabili in una pellicola in effetti un po' kitsch, certo non la migliore tra le varie "supereroistiche" uscite lo scorso anno.

Bravissimi Alessandro e Giorgio, ma i nostri connazionali negli ultimi anni hanno sempre fatto la loro porca figura.
Vedansi Francesca Lo Schiavo e Dante Ferretti nel 2012 per la scenografia di Hugo Cabret, La Grande Bellezza nel 2014, Milena Canonero nel 2015 con Grand Budapest Hotel ed Ennio Morricone l' anno scorso per The Hateful Eight.

Siamo molto contenti anche per l'affermazione del delizioso Piper tra i corti d'animazione: a dirigerlo, l'italo-canadese Alan Barillaro.
Tra i lungometraggi è stato invece il gradevole Zootropolis a prevalere nel "derby" Disney con Oceania.

Dopo l'Oscar per il miglior film straniero nel 2016 a Il Figlio di Saul di László Nemes e il recentissimo Orso d'Oro a Testről és lélekről della cineasta Ildikó Enyedi, il dinamico e originale cinema ungherese coglie un altro alloro: tra i corti si è imposto Sing (Mindenki) del giovane Kristóf Deák, in effetti il più interessante tra le opere in competizione.

C'entra molto la politica anche relativamente ai premi per il miglior film in lingua straniera e per il miglior cortometraggio documentario.

Il regista iraniano Asghar Farhadi, al suo secondo riconoscimento dopo quello assegnato nel 2012 a Una Separazione, non ha voluto partecipare alla cerimonia per protesta contro le politiche di chiusura di Trump nei confronti delle persone provenienti da certi stati islamici, tra i quali appunto l'Iran e la Siria.

Le difficoltà che incontrano i cittadini di quest'ultimo Paese ad entrare negli USA hanno impedito, invece, agli eroici soccorritori protagonisti di The White Helmets di essere presenti alla Notte delle Stelle: che beffa, visto che il mini documentario che parla di loro ha vinto...

Insomma, politica e gaffe hanno rovinato un'edizione interessante e dato parecchi dispiaceri a persone che non se lo meritavano.

Avanti di questo passo, l'Academy dovrà istituire un Oscar anche per la categoria "mainagioia"...





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