CINEMA A BOMBA!

mercoledì 27 aprile 2016

GLI INEDITI: KNIGHT OF CUPS, MALICK TAROCCATO

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

USA, 2015
118'
Regia: Terrence Malick
Interpreti: Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Imogen Poots, Teresa Palmer, Jason Clarke, Wes Bentley, Brian Dennehy, Joe Manganiello, Joel Kinnaman, Freida Pinto, Antonio Banderas, Ryan O'Neal, Armin Mueller-Stahl, Isabel Lucas, Ben Kingsley (voce).


Il Fante di Coppe (il Knight of Cups del titolo ne è la traduzione in lingua inglese), secondo i tarocchi, rappresenta la persona perennemente annoiata e in cerca di stimoli, ma anche amabile, di forti principi morali, sensibile ma a forte rischio di perdersi.

È una carta ambivalente: se è letta rivolta all'insù, essa significa cambiamenti, nuove avventure, opportunità, offerte; se invece è rivolta in giù, inaffidabilità, temerarietà, false promesse, inganni, difficoltà a distinguere il falso dal vero.

Rick (Bale) è proprio così: pur essendo uno sceneggiatore di successo, la tragica morte di uno dei suoi due fratelli sembra averlo svuotato.
È un uomo che usa le parole per vivere, ma che paradossalmente non parla mai.

Cerca di riempire vanamente la propria esistenza frequentando feste vip - in una di queste incontra Antonio Banderas, Jason Clarke, Ryan O'Neal e Joe Manganiello -, uscendo con belle donne - una (Blanchett) addirittura la sposa, le altre (Pinto, Portman, Lucas, Poots, Palmer...) sono semplici amorazzi passeggeri -, stordendosi con luci artificiali, rumori, confusione.

Il suo cammino procederà per esperienze diverse, per tappe - ognuna delle quali ispirata ad una carta dei tarocchi e ad un personaggio-chiave: La Luna, L'Appeso, L'Eremita, Il Giudizio, La Torre, La Papessa, La Morte, La Libertà - che lo porteranno a riconciliarsi con Dio, con padre (Dennehy) e fratello (Bentley), e col mondo.

Terrence Malick è cambiato.
Un tempo era un autore schivo fino all'eccesso, che si teneva lontano dai mass media, lavorava ogni 20 anni e puntava a realizzare opere grandiose che puntualmente facevano gridare al capolavoro.

Da qualche anno invece si fa fotografare sul set, mette in cantiere un progetto dopo l'altro e lavora per continua sottrazione, girando film sempre più rarefatti e astratti: riprese contemplative con camera a mano, dialoghi pressoché inesistenti, voce fuori campo come se piovesse, paesaggi che scorrono.

Il pante-umanista The Tree of Life - che, tra le altre cose, ha avuto il merito di far conoscere al mondo Jessica Chastain - è stato non solo il suo acme creativo, ma anche il punto di non ritorno.

In questi termini, si può dire allora che Knight of Cups sia praticamente un To The Wonder Parte 2, con Christian Bale al posto di Ben Affleck (da un Batman all'altro: il primo lo è stato nella trilogia di Christopher Nolan, il secondo nel nuovo Batman v Superman).

Anche in questo caso il cineasta texano non ha scritto una sceneggiatura vera e propria, ma si è limitato a dare istruzioni agli attori, lasciandoli liberi di improvvisare e scegliere i dialoghi che preferivano.

In aggiunta si è servito di una tecnica chiamata torpedoing, che consiste nell'introdurre a sorpresa un personaggio nella scena mentre gli altri attori stanno girando, così da filmare la loro reazione.

Il supercast ha retto bene il gioco: se Bale si è limitato a "essere" piuttosto che a recitare, sono da segnalare le prove dell'intensa Cate Blanchett (già Premio Oscar nel 2005 e nel 2014) e di una tormentata Natalie Portman (la Principessa Amidala della trilogia prequel di Star Wars).

Come al solito, risultano fondamentali i contributi tecnici: il tema principale è scritto dal compianto compositore polacco di colonne sonore Wojciech Kilar, mentre la fotografia è firmata dal virtuoso messicano Emmanuel Lubezki (da poco entrato nella storia dopo aver vinto ben 3 Oscar consecutivi).

Detto questo, bisogna però ammettere che qualcosa, questa volta, si inceppa.

La mancanza di dialoghi, nella lunga distanza, si sente: affidare la narrazione allo scorrere delle immagini e alle poche voci fuori campo rende il film sì contemplativo e riflessivo, ma anche poco scorrevole.

Si sa, Malick è un autore che non fa troppe concessioni: le sue opere - mai banali - sono profonde e suggestive; ma anche sempre più personali e sperimentali, con buona pace dell'accessibilità al pubblico.

Presentato in anteprima mondiale in competizione alla Berlinale del 2015, Knight of Cups ha infatti trovato scarsa distribuzione e successo negli USA (in Italia è ancora inedito), ma l'imperterrito regista guarda già al prossimo futuro.

Sempre quest'anno sono previste le uscite di Weightless - girato back-to-back con questo film e quasi con gli stessi attori - e di un ambizioso documentario che narra della nascita e della morte dell'universo conosciuto, dal titolo The Voyage of Time (uno spin-off di The Tree of Life?).

Siamo di fronte ad una risposta "d'autore" alla serialità delle pellicole di eroi & supereroi targate Disney/Marvel/Lucasfilm o Warner Bros/DC Comics?

Speriamo solo che corregga un po' il tiro.
Altrimenti ci troveremo a rimpiangere il Malick poco prolifico.

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domenica 17 aprile 2016

I CLASSICI: INSIDE OUT, TU CHIAMALE SE VUOI... EMOZIONI!

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USA, 2015
94'
Regia: Pete Docter, Ronnie del Carmen
Voci originali di: Amy Poehler, Phyllis Smith, Lewis Black, Bill Hader, Mindy Kaling, Diane Lane, Kyle MacLachlan, Frank Oz.


Nella testa di Riley, undicenne del Minnesota appassionata di hockey, convivono 5 emozioni: Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto.
La sua vita cambia quando, insieme ai genitori, si trova costretta a trasferirsi a San Francisco.

Le difficoltà della nuova situazione sono aggravate da alcuni pasticci compiuti dalle emozioni nel Quartier Generale, che rischiano di far perdere a Riley tutti i Ricordi Base.
Toccherà a Gioia e Tristezza unire le forze per evitare che le Personalità della ragazzina finiscano per sempre nel Baratro della Memoria...

In un'era in cui le pellicole d'animazione sembrano spuntare come funghi, non è sempre facile imbattersi in opere di qualità.
Per fortuna, Inside Out appartiene a questa categoria.

Era da un po' di tempo che la premiata ditta Disney-Pixar non ci offriva un prodotto di così alto livello: tolto Frozen (ben 2 Oscar nel 2014), bisogna risalire al bellissimo Up (2009) per ritrovare qualcosa di simile.

Rivolto più a spettatori pre-adolescenti che a bambini (ma è consigliabile anche agli adulti), il film sfrutta un'idea originale e geniale - la personificazione delle emozioni - e la innesta in una storia che è possibile leggere a più livelli.

Consultando psicologi e specialisti del settore, gli sceneggiatori Peter Docter (anche regista), Meg LeFauve e Josh Cooley - candidati un po' a sorpresa ma meritatamente all' Oscar - si sono concentrati su 5 emozioni delle 27 originariamente considerate e quindi le hanno caratterizzate: Gioia assomiglia ad una stella; Tristezza ad una lacrima; Rabbia ad un mattone infuocato; Paura ad un nervo; Disgusto ad un broccolo.

Dopodiché hanno sviluppato (con sensibilità) una storia dal punto di vista principalmente della protagonista, un'adolescente nel bel mezzo dei turbamenti della crescita.

Sebbene vengano toccati quindi argomenti seri, il divertimento tuttavia non manca - anche se bisogna ammettere che si ride meno che in altri film d'animazione più leggeri, superficiali e "facili".

Così, si può apprezzare la buffoneria dei personaggi di contorno, come il collerico Rabbia o l'imbranato ragazzino coi ricci (questi è stato poi protagonista di Il Primo Appuntamento di Riley, spassoso corto/sequel che vi avevamo presentato qualche tempo fa), e godersi i riferimenti tra le righe, i giochi di parole, le scenette di vita familiare, gli sketch.

Nel cast originale - una volta tanto non rovinato, nel doppiaggio italiano, dalla solita pletora di dilettanti pseudovip - si segnalano attori del calibro di Diane Lane (ormai abituata al ruolo di madre: è pure quella di Clark Kent nel recentissimo Batman v Superman), Kyle MacLachlan di Twin Peaks, Frank Oz (era in Una Poltrona per Due, ricordate?) e la coppia Hader/Poehler, già collaudata in Hoodwinked Too.

Che Inside Out sia stato il film d'animazione dell'anno lo attesta anche lo scontato Oscar nella categoria, seguito all'altrettanto prevedibile Golden Globe e al tripudio tributato prima dal Festival di Cannes e poi dagli spettatori in tutto il mondo.

Fa ridere, riflettere e commuovere: non poca cosa per un cartoon.

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domenica 10 aprile 2016

BATMAN V SUPERMAN: DAWN OF JUSTICE, L'ALBA DEI SUPER-GILET

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USA, 2016
151'
Regia: Zack Snyder
Interpreti: Ben Affleck, Henry Cavill, Gal Gadot, Amy Adams, Jesse Eisenberg, Diane Lane, Laurence Fishburne, Jeremy Irons, Holly Hunter, Kevin Costner, Jason Momoa, Ezra Miller, Ray Fisher, Michael Shannon, Jeffrey Dean Morgan.


Comincia così. La febbre. La rabbia. Il senso di impotenza che rende gli uomini buoni crudeli.

Bruce Wayne/Batman (Affleck) è stato testimone di morte e distruzione causate dalla lotta tra Superman (Cavill) e gli accoliti del Generale kryptoniano Zod (Shannon), senza aver potuto fare nulla per salvare vite umane.

La frustrazione ed il desiderio di vendetta lo porteranno a considerare il superuomo alieno un potenziale nemico dell'umanità: se egli volesse diventare padrone della Terra non avrebbe difficoltà a riuscirci, in virtù della sua forza prodigiosa e dell'aura da semidio.
Lui, così al di sopra di tutto e di tutti.

Lo stesso Clark Kent è tormentato dai dubbi sul proprio ruolo nel mondo e dai sensi di colpa per via delle numerose perdite umane che le sue azioni hanno portato.

Ad aizzare l'uno contro l'altro i due supereroi ci pensano le macchinazioni di un giovane magnate senza scrupoli di nome Lex Luthor (Eisenberg).

Uomo contro Superuomo: chi vincerà?

L'esito sembrerebbe scontato, ma mai sottovalutare la determinazione dell'Uomo Pipistrello:
Dimmi: tu sanguini? Lo farai!

Lo scontro sarà epico e senza esclusione di colpi.

Un'attesa spasmodica, alimentata da anticipazioni goccia-a-goccia.
Una martellante - e un po' invasiva - campagna pubblicitaria.
Furiose polemiche via web sul nuovo interprete del paladino di Gotham City.
La curiosità di vedere uno contro l'altro i due eroi dei fumetti più famosi e popolari al mondo.
L'inevitabile confronto col florido universo Marvel.

Batman v Superman: Dawn of Justice non poteva che essere destinato a grandi incassi iniziali e a discussioni senza fine.

Bisogna ammettere che affidare la cabina di comando ad un regista divisivo come Zack Snyder non ha aiutato la pellicola dinnanzi ai critici, che precedentemente avevano massacrato il suo 300: le recensioni sono state impietose e stanno cominciando ad avere effetto sull'afflusso del pubblico.

Che cosa viene imputato al cineasta del Wisconsin?
Di aver sprecato una storia potenzialmente esplosiva con tutta una serie di gravi errori: l'assenza di ironia e alleggerimenti in una storia fin troppo cupa e violenta, una certa freddezza nella narrazione, la presenza di troppi particolari nelle singole inquadrature, uno sviluppo un po' abborracciato (eppure lo script è firmato da due ottimi sceneggiatori), goffe velleità pseudo-religiose, la scarsa originalità nella rappresentazione del malvagio Doomsday (in effetti sembra uscito dalla saga de Il Signore degli Anelli)...

Beh, su quest'ultimo punto non possiamo ribattere, ma per il resto noi della redazione di CINEMA A BOMBA! siamo rimasti entusiasti di questo Batman v Superman... e voi sapete quanto siamo esigenti!

I due autori del copione - Chris Terrio (Oscar nel 2013 per Argo) e David S. Goyer (co-sceneggiatore del Batman nolaniano e de L'Uomo d'Acciaio) - hanno attinto da diverse fonti fumettistiche importanti, in particolare Il Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller (riferimento di quasi tutti i film di Batman realizzati finora) e la Justice League nella versione di Jim Lee e Geoff Johns (quest'ultimo figura nei credits come produttore esecutivo), per contribuire a realizzare un'opera unica nel suo genere.

Eh sì, perché BvS è allo stesso tempo un seguito, un reboot e un prequel.
Un seguito del succitato L'Uomo d'Acciaio, riuscito rilancio cinematografico di Superman; un reboot della lunga saga di Batman, con Ben Affleck come nuovo Uomo Pipistrello; un prequel della futura serie dedicata proprio alla Justice League, corrispettivo DC Comics degli Avengers targati Marvel.

Quella orchestrata da Snyder è un'opera complessa, da "leggere" a più livelli, sospesa tra sogno e realtà.
Richiede spettatori non passivi, tanti sono i riferimenti più o meno nascosti, le sottotrame, gli interludi apparentemente fuori contesto.
E tanti sono i personaggi, gli effetti speciali, i dettagli.

Pensiamo che proprio questo sia uno dei punti di forza: è sconsigliato a quanti sono abituati a recarsi al cinema solo per vedere storie esili infarcite esclusivamente di esplosioni e scazzotatte (che comunque non mancano neppure qui).
Non è un caso che il regista/fumettista Kevin Smith - un vero esperto nel settore - abbia affermato che BvS andrebbe visto almeno due volte.

Un altro punto di forza, l'unico che abbia messo d'accordo pubblico e critica, è la scelta geniale di Ben Affleck come Bruce Wayne.
La sua è una prova che ha zittito anche gli haters più ottusi: mascella in evidenza, fisico (fin troppo) scolpito e grinta da vendere, il due volte Premio Oscar (come sceneggiatore di Will Hunting-Genio Ribelle e come produttore di Argo) è senza dubbio il miglior Batman dai tempi di Michael Keaton.

A tenergli degnamente testa è l'attrice/modella/ex soldatessa israeliana Gal Gadot (già vista in Fast & Furious 4, 5 e 6), la prima Wonder Woman a comparire sul grande schermo.
Esordio col botto: il suo personaggio è subito piaciuto per piglio, fascino e coraggio - il suo irrompere in scena col costume in una delle sequenze topiche ha scatenato in molte sale applausi scroscianti e approvazioni - e ora molti aspettano con impazienza la pellicola di cui sarà protagonista assoluta (la stanno girando in parte in Italia).

L'inglese Henry Cavill si conferma una buona scelta per il ruolo di un Clark Kent/Superman, deus ex machina poco deus ma molto tormentato, diviso tra l'amore per le donne della sua vita - la fidanzata Lois Lane (la sempre ottima Amy Adams; ma non potevano darle più spazio?) e la madre Martha (Diane Lane) - e i suoi doveri di supereroe.

Pareri discordi ha generato la personificazione di Lex Luthor da parte di Jesse Eisenberg.
Molto lontano dalle caratterizzazioni che anni or sono avevano dato al personaggio Gene Hackman e Kevin Spacey, la nemesi di Superman è ora un piccolo capellone psicotico e nervosetto.
Il candidato all'Oscar per The Social Network va un po' sopra le righe, ma lo richiede il ruolo: abbiamo finalmente trovato un Lex Luthor machiavellico e senza scrupoli, più aderente all'originale rispetto a quello dei suoi predecessori.

Tra gli attori di contorno, spiccano Laurence Fishburne, Michael Shannon (il già protagonista di Bug e Take Shelter non è che abbia proprio una parte: diciamo che compare) e Jeffrey Dean Morgan (quello di Texas Killing Fields; gli avevamo dedicato anche una scheda, ricordate?).

E poi ben tre Premi Oscar!
Jeremy Irons lo ha vinto nel 1991 per Il Mistero von Bulow. Qui fa Alfred, il compassato maggiordomo tuttofare di casa Wayne.
Holly Hunter è stata premiata nel 1994 per Lezioni di Piano. È la senatrice Finch.
Nella parte del padre putativo di Clark Kent ritroviamo invece Kevin Costner: lui, nel 1991, si era portato a casa le statuette per il miglior film e la migliore regia grazie a Balla coi Lupi.

Senza spoilerare nulla - il sottotitolo Dawn of Justice è abbastanza esplicito - possiamo segnalare anche l'introduzione, in piccoli cammei, dei futuri personaggi che andranno a completare la Justice League: Aquaman (Momoa), Flash (Miller), Cyborg (Fisher).
In futuro avranno dei film dedicati, non preoccupatevi.

All'appello manca solo Lanterna Verde: forse verrà recuperato più avanti, forse invece sta pagando il fiasco della sua pellicola "solista" di qualche anno fa, quando a interpretarlo era stato Ryan Reynolds (l'attore canadese si è rifatto ampiamente col recentissimo Deadpool, come sappiamo).

Tuttavia, BvS non è soltanto l'apripista di una lunga serie, bensì un'opera di intrattenimento molto più ricca delle sue omologhe in quanto a contenuti, temi, argomenti di discussione.
E più ambiziosa, più profonda.

Neghiamo quindi con decisione che a questo film - che rimarrà comunque un capitolo fondamentale nella storia del cinema supereroistico - manchi una vera e propria morale, come qualche critico ha affermato.
La morale c'è, e la prendiamo in prestito da Gigi Proietti, parafrasando il suo sketch del Cavaliere Bianco contro il Cavaliere Nero.

Non importa che tu sia il Joker, il Pinguino, Due Facce, l'Enigmista, Mr. Freeze, Poison Ivy, lo Spaventapasseri, Ra's al Ghul, Bane, Lex Luthor, Doomsday o addirittura Superman.

Tu ar Cavaliere Oscuro nun je devi rompe' er ca...!
Sennò son dolori (e i personaggi sopra citati ne sanno qualcosa).

[Curiosità finale: avete notato il curioso proliferare di gilet nel corso del film? Ne indossa uno praticamente ogni personaggio, o quasi.
Che ciò sia un vezzo del costumista Michael Wilkinson, una semplice casualità o che invece sottenda qualcos'altro lo lasciamo decidere a voi...]

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mercoledì 6 aprile 2016

OSCAR 2016. THE REVENANT, COSA NON SI FA PER VINCERE UN OSCAR...

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

USA, 2015
156'
Regia: Alejandro González Iñárritu
Interpreti: Leonardo DiCaprio, Tom Hardy, Will Poulter, Domhnall Gleeson, Lukas Haas.


1823. Il trapper Hugh Glass (DiCaprio) guida una spedizione attraverso il freddo Nord Dakota (Nord degli Stati Uniti, al confine col Canada), territorio reso ostile dalle avverse condizioni atmosferiche e dalla presenza di Indiani e Francesi.

Andando in perlustrazione, ad un certo punto, egli rimane da solo in mezzo ad un bosco; qui viene attaccato da una femmina di orso che vuole difendere i suoi piccoli e rimane gravemente ferito.

Creduto ormai in fin di vita, viene lasciato indietro per non rallentare la marcia, in compagnia del figlio meticcio avuto da una squaw e di altri due compagni.
Uno di questi, il violento Fitzgerald (Hardy, che pare Tom Berenger in Platoon), cerca di soffocare il moribondo considerandolo solo un peso, ma finisce per uccidere il ragazzo sotto gli occhi del padre.

Costui viene abbandonato in una fossa improvvisata, al gelo.
Ma nonostante tutto riesce a sopravvivere e a percorrere la lunga e faticosa strada verso la propria vendetta.

Il termine revenant, di origine francese, è di scarso utilizzo nella lingua parlata inglese, e significa - consultando il vocabolario Devoto-Oli - "l'anima di un morto che si presume ritorni dall'aldilà in forma corporea", "persona che ricompare dopo una lunga assenza", oppure "sopravvissuto, superstite".

Tutte definizioni che ben descrivono - di certo meglio del termine redivivo appiccicato al titolo nella versione italiana - la figura quasi mitica dell'esploratore Hugh Glass, che aveva già ispirato Uomo Bianco, Va' Col Tuo Dio del 1971 con Richard Harris e John Huston.
A incarnarlo uno dei più celebri, celebrati e talentuosi attori di questo nuovo secolo: Leonardo DiCaprio.

Preparazione maniacale e serietà professionale sono da sempre i suoi approcci ad ogni ruolo, ma questa volta ha dovuto: mangiare fegato di bisonte crudo (lui che è vegetariano!), sottoporsi a ore di trucco dopo essersi svegliato in piena notte, imparare a sparare con un moschetto, accendere un fuoco coi legnetti, indossare pellicce d'alce e orso pesanti quasi 50 chili, recitare con una bronchite a parecchi gradi sotto zero...

Buon per lui che almeno l'orsa che lo attacca non sia vera: si tratta di uno stuntman che indossa una tuta blu. L'animale è stato creato in post-produzione con effetti speciali digitali: unica concessione al rigoroso realismo imposto da Alejandro G. Iñárritu.

Proprio in nome del realismo, il regista messicano ha deciso di girare gli esterni in location incontaminate, per rappresentare al meglio le aree più selvagge del Nord America della prima metà del XIX secolo, servendosi solo di luci naturali.

Questo ha posto una serie di problemi: le località scelte - principalmente la Columbia Britannica (Canada) e, per finire le riprese, la parte argentina della Terra del Fuoco - erano remote, impervie e selvagge, raggiungibili dopo ore di cammino.

Una volta in loco, a tutti era richiesto di svolgere i propri compiti in modo pressoché perfetto, essendo il tempo a disposizione assai limitato (circa 90 minuti al giorno di luce, per la gioia - si fa per dire - del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki).
E tutto questo a -30/40°.

Immaginate il clima, atmosferico e tra le persone: tra il regista e Tom Hardy c'è stata infatti una lite furibonda (ma i due sono noti per il proprio caratteraccio), mentre alcuni membri della troupe hanno lasciato le riprese a causa delle troppe difficoltà incontrate o sono stati cacciati dal regista per via delle reiterate proteste.

La scelta, poi, di girare le scene in ordine cronologico ha allungato ulteriormente i tempi e ha fatto di conseguenza lievitare i costi: dagli iniziali 60 milioni di dollari si è arrivati alla cifra di 135 finali!

Un'abile operazione pubblicitaria ha implicitamente accostato il processo di realizzazione a quello di altre pellicole "maledette", quali Aguirre, Furore di Dio (1972) e Fitzcarraldo (1982) di Werner Herzog, Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola e Il Salario della Paura di William Friedkin.
Al di là delle esagerazioni del caso, pensiamo veramente che sia stata un'esperienza dura per tutti coloro che vi hanno lavorato.

Ma ne è valsa la pena?

A parte Iñárritu, Lubezki e DiCaprio, per il resto del cast e delle maestranze le condizioni nelle quali hanno dovuto lavorare non hanno portato ai risultati sperati.

The Revenant si è presentato alla vigilia forte di ben 12 nomination (il primato di questa edizione), ma alla fine si è accontentato di sole tre statuette.

Niente gloria quindi per Tom Hardy (non protagonista), per gli autori della colonna sonora - Ryūichi Sakamoto (sue le musiche di film di Bernardo Bertolucci quali L'Ultimo Imperatore - per il quale vinse l'Oscar nel 1988 -, Il Tè nel Deserto e Il Piccolo Buddha), il sofisticato compositore tedesco Alva Noto e il chitarrista Bryce Dessner del gruppo indie The National, che comunque non sono stati neppure candidati -, per i tecnici (di montaggio, scenografia, costumi, trucco, effetti speciali, sonoro, montaggio sonoro).

Per quel che riguarda i produttori, nominati per il miglior film, essi possono bilanciare il mancato premio con i risultati al botteghino.

Finora la pellicola ha infatti incassato più di 400 milioni nel mondo: un ottimo riscontro di pubblico, ben superiore a quello ottenuto dalle precedenti pellicole dirette da Iñárritu: Amores Perros (2000), 21 Grammi (2003), Babel (2006), Biutiful (2010) e Birdman (2014).

Per quest'ultima, il regista aveva ottenuto la soddisfazione di vincere personalmente l'Oscar per la migliore regia (secondo messicano consecutivo dopo Alfonso Cuarón l'anno precedente) - unitamente a quello per il film e la sceneggiatura originale.

Bissare la prestigiosa statuetta un anno dopo aver agguantato la prima era però impresa che era riuscita ad un solo cineasta, Joseph L. Mankiewicz (per Lettera a Tre Mogli nel 1950 ed Eva Contro Eva nel 1951) - prima di lui solo il mitico John Ford ce l'aveva fatta (nel 1941 e nel 1942), ma ne aveva già vinta un'altra nel 1936.

Ma, riuscendoci, Iñárritu è entrato nella storia del cinema.

Come Emmanuel Lubezki: nessun direttore della fotografia prima di lui, invece, è riuscito a fregiarsi dell'Academy Award per tre (!) edizioni consecutive - il primo, nel 2014, era per Gravity, il secondo per il già citato Birdman.

Lavorare con un maestro come Terrence Malick - per The New World, una delle ispirazioni più palesi per filmare i paesaggi incontaminati canadesi e argentini con la sola luce naturale, The Tree of Life e To the Wonder - gli ha sicuramente giovato.

Ma dal pubblico The Revenant verrà ricordato soprattutto come il film che ha finalmente consentito a Leonardo DiCaprio di vincere il suo primo Oscar.

Era ora, dopo ben 6 nomination - nel 1993 (a soli 19 anni, quindi) per Buon Compleanno Mr. Grape, nel 2005 per The Aviator, nel 2007 per Blood Diamond, nel 2014 per The Wolf of Wall Street (due, una come attore protagonista, l'altra come produttore).

Certo, a Peter O'Toole (8 candidature), Richard Burton (7), Deborah Kerr, Thelma Ritter e Glenn Close (6) è andata peggio - non hanno mai vinto niente (sebbene quest'ultima sia ancora in tempo per rifarsi) -, ma era da anni che si chiedeva a gran voce di riconoscere degnamente il talento dell'italo-americano.
Che comunque, tra i numerosi premi guadagnati, può fregiarsi anche di ben tre Golden Globe: nel 2005, 2014 e quest'anno.

Interpretare Hugh Glass, però, ha rappresentato una vera sfida.

Il buon Leo non era nuovo a ritratti di uomini straordinari realmente esistiti - è stato l'artista punk Jim Carroll (Ritorno dal Nulla di Scott Kalvert, 1995), il poeta maledetto Arthur Rimbaud (Poeti dall'Inferno di Agnieszka Holland, stesso anno), il re di Francia Luigi XIV e la Maschera di Ferro (La Maschera di Ferro, appunto, di Randall Wallace, 1998), il truffatore trasformista Frank Abagnale Jr. (Prova a Prendermi di Steven Spielberg, 2002), l'eccentrico miliardario Howard Hughes (The Aviator di Martin Scorsese, 2004), lo storico direttore dell'FBI J. Edgar Hoover (J. Edgar di Clint Eastwood, 2011), lo spregiudicato broker Jordan Belfort (il sopraccitato The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, 2013).

Ma questa volta ha dovuto affrontare il ruolo di un uomo che resta solo per gran parte della durata della pellicola: e ciò ha comportato inevitabilmente pochi dialoghi, poche iterazioni con gli altri attori, molti primi piani, molta fisicità, un'espressività espressamente non troppo esagerata.
E soprattutto la responsabilità di sostenere sulle proprie spalle quasi tutto il film.

Solo un fuoriclasse poteva riuscirci senza perdere credibilità o farsi trascinare da un egotismo ipertrofico.
Ovvio, se poi ti rivolgi ad uno dei migliori sulla piazza, vai sul sicuro.

Eppure, al di là delle molte difficoltà che ha incontrato e che abbiamo citato e alla credibilità che ha infuso nel personaggio, DiCaprio dona alla propria interpretazione forza, incisività e potere iconico - la barba lunga e congelata che si confonde con la spessa pelliccia, gli occhi azzurri freddi come il clima, l'incedere faticoso ma risoluto, le profonde ferite su corpo e viso... tratteggiano efficacemente la figura di un Übermensch (cioè, un superuomo come lo intendeva il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche) che sopravvive grazie al proprio titanico volere e ad un'inestinguibile sete di vendetta.

Se non lo avessero premiato, l'Academy avrebbe perso ogni credibilità e sarebbe incorsa nell'ira funesta dei tanti fan del divo - già la questione degli Oscar "troppo bianchi" (ne avevamo accennato qui) aveva creato un bel polverone.

Comunque il riconoscimento è stra-meritato e la consegna del premio è un momento che resterà impresso anche nel futuro.

Un (disgustoso) fegato di bisonte val bene un Oscar, in fondo.

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