CINEMA A BOMBA!

martedì 29 marzo 2016

I CORTI: THE AUDITION, BATBOB V SUPERLEO

(Clicca sulla locandina per vedere il cortometraggio). 

USA, 2015
16'
Regia: Martin Scorsese
Interpreti: Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Martin Scorsese, Brad Pitt, Rodrigo Prieto.


Stiamo vivendo un periodo in cui a Hollywood piacciono i grandi scontri tra supereroi: in questi giorni abbiamo nelle sale Batman contro Superman (Batman v Superman: Dawn of Justice), mentre fra pochi mesi vedremo Capitan America contro Iron Man (Captain America: Civil War).

Perché allora non fare lo stesso coi grandi attori?
Perché non mettere Robert De Niro contro Leonardo DiCaprio?

Poniamo che i due si trovino inaspettatamente faccia-a-faccia a Manila, entrambi piuttosto sorpresi di essersi incontrati.
Scopriamo che sono stati chiamati contemporaneamente dal regista Martin Scorsese, che li vuole sottoporre a un provino per il ruolo di protagonista nel suo prossimo film.

Tra i due parte una competizione serrata senza esclusione di colpi, che porterà Scorsese a correre ai ripari...
Di più non raccontiamo per non togliere la sorpresa.

Ciò che possiamo dirvi, invece, è che questo cortometraggio - ufficialmente un mega spottone da 70 milioni di dollari di budget (!) a favore di due lussuosi casinò a Manila (Filippine) e Macao (Cina) ma, vedrete, rappresenta molto di più - è imperdibile per più di una ragione.

Innanzitutto, avete mai visto due divi come Robert De Niro e Leonardo DiCaprio recitare assieme in un film di Martin Scorsese?

Stiamo parlando di due attori capaci di vincere finora tre Oscar: i suoi, Bob li ha vinti nel 1975 (Il Padrino - Parte II, come non protagonista) e nel 1981 (Toro Scatenato); Leo, la sua prima statuetta l'ha conquistata solo quest'anno, ma a furor di popolo, per The Revenant (che recensiremo a breve).

È vero, i due erano già stati insieme in Voglia di Ricominciare del 1993 e La Stanza di Marvin del 1996, ma mai diretti dal loro mentore.

In particolare, fa impressione considerare il fatto che sono passati ormai vent'anni dall'ultima collaborazione tra Scorsese e De Niro - l'ottava (DiCaprio si è fermato a quota 5 lungometraggi), il discusso Casinò.

Proprio questa era stata una delle ultimissime grandi interpretazioni del divo del Bronx, che ritorna così - con ironia e autoironia, certo - sul luogo del delitto: il rutilante mondo delle case da gioco.

Qui assistiamo ad un interessante cambio di prospettiva da parte del regista: se nel film del 1995 esse erano viste come uno scintillante luogo di perdizione, questa volta vengono ritratte come un luogo di lusso tranquillo, dove potersi rilassare e mangiare bene.

Location che fanno da sfondo al vero fulcro del cortometraggio: lo scontro professionale e generazionale tra due pesi massimi del cinema, tra due modi diversi di recitare.

Scontro che fa scintille e che si risolve in un duetto divertente tutto giocato in punta di fioretto.

All'atmosfera scanzonata e da rimpatriata di amici concorrono anche un "indeciso" Scorsese - che ad un certo punto compare anche insieme a Rodgrigo Prieto, direttore della fotografia di Amores Perros, 21 Grammi, Babel e Biutiful di Alejandro González Iñárritu, ma anche di 8 Mile di Curtis Hanson, I Segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, Alexander e Wall Street, Il Denaro Non Dorme Mai di Oliver Stone, Argo di Ben Affleck, The Wolf of Wall Street e il prossimo Silence del buon Martin - e un "esagerato" e spassoso Brad Pitt (altro Premio Oscar: come produttore di 12 Anni Schiavo).

The Audition doveva essere presentato in anteprima all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, ma a causa di non meglio precisati problemi tecnici non ha potuto sbarcare al Lido.

Peccato.
Ma in questo periodo di lotte cinematografiche tra supereroi, una bella baruffa tra superattori ci sta alla grande.

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lunedì 21 marzo 2016

OSCAR 2016. MAD MAX: FURY ROAD, NELLA TESTA DI GEORGE MILLER

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

Australia/USA, 2015
120'
Regia: George Miller
Interpreti: Tom Hardy, Charlize Theron, Nicholas Hoult, Hugh Keays-Byrne, Josh Helman, Rosie Huntington-Whiteley, Zoë Kravitz, Megan Gale, iOTA.


Fury Road è la strada che attraversa un arido deserto di sabbia che si estende a perdita d'occhio.
Al suo termine c'è la Cittadella, l'unico posto dove sopravvive un po' di vegetazione.

La Cittadella è controllata da Immortan (sic) Joe (Keays-Byrne), che ha a sua disposizione - oltre ad acqua, cibo, mezzi di trasporto - un esercito di Figli della Guerra che hanno costante bisogno di trasfusioni da persone sane e un harem personale di belle ragazze da ingravidare.

Un giorno una di queste, l'intrepida Furiosa (Theron), si impossessa di un'autocisterna e cerca di scappare con le sue giovani compagne.

Ad aiutarla nella fuga, un ragazzo malato della Cittadella (Hoult) e soprattutto un prigioniero costretto a fare da sacca di sangue vivente: Max "Mad Max" Rockatansky (Hardy), uomo in cerca di redenzione dopo la morte dei propri familiari.

Nella testa del settantunenne regista australiano George Miller ci deve essere un bel guazzabuglio di idee.

L'autore di pellicole quali la commedia nera Le Streghe di Eastwick (1987), il drammatico L'Olio di Lorenzo (1992) e i buffi e divertenti Babe, Maialino Coraggioso (1995. Non lo ha diretto, ma solo sceneggiato e prodotto), Babe Va in Città (1998), Happy Feet (2006, Oscar come miglior film d'animazione), Happy Feet 2 (2011), è infatti lo stesso che, con i primi tre film della saga dedicata a Mad Max, era riuscito a re-inventare la fantascienza immettendovi forti dosi di ritmo forsennato (con un montaggio velocissimo), aggressività, violenza e pessimismo.

Trent'anni dopo Mad Max-Oltre la Sfera del Tuono (1985), che era l'ultimo della serie - gli altri sono il capostipite Interceptor del 1979 e Interceptor-Il Guerriero della Strada del 1981 - il buon Miller decide di rimettersi nuovamente in gioco.

Non proponendo un semplice reboot - cioè, un riscrivere le origini di un personaggio utilizzando però un canovaccio facilmente riconoscibile dai fan - ma re-inventando il mondo che lo aveva reso celebre, pur restando fedele al proprio stile e senza disdegnare, qua e là, citazioni dai suoi lavori precedenti.

La gestazione di Mad Max: Fury Road è stata piuttosto lunga: l'idea era venuta al nostro George circa dodici anni fa, ma problemi produttivi e organizzativi di varia natura - tra i quali la defezione di Mel Gibson - hanno finito per posticiparne la realizzazione.

Visti però i risultati, l'attesa è stata ben ripagata: la presentazione a Cannes 2015 (l'anteprima era però avvenuta a Hollywood qualche giorno prima) è stata un tripudio, così come la risposta del pubblico e della critica, culminata con ben 10 nomination agli Oscar: per film, regia e tutti i premi tecnici (fotografia, montaggio, sonoro, montaggio sonoro, scenografia, costumi, trucco & parrucco, effetti speciali).

Queste 10 nomine si sono infine concretizzate in ben 6 Oscar - tutti quelli delle categorie tecniche, tranne effetti speciali e fotografia - che ne hanno fatto quasi il vincitore morale (si veda il nostro post precedente), specie considerando che Revenant-Redivivo ne ha vinti solo 3 e che Il Caso Spotlight - miglior film, a sorpresa - si è addirittura fermato a 2.

Non male per una pellicola dove ciò che conta non è tanto la trama o i dialoghi o un discorso "alto" da veicolare; bensì l'azione, la velocità, le immagini - splendide, tra l'altro: complimenti al direttore di fotografia John Seale, che si è ritirato dalla pensione per lavorare a quest'opera!

La visionarietà di George Miller è in effetti notevole e deve molto all'immaginario heavy metal e steampunk, coi colori che passano dal livido al vivido senza tante sfumature.

Questo stile raggiunge il culmine nelle scene di inseguimento: pensate ad un western tipo Ombre Rosse.
Con moto, camion, auto corazzate, alte pertiche alle quali sono appesi uomini armati, guerrieri dipinti di bianco e un mostruoso chitarrista metal che - sospeso con corde elastiche su un gigantesco palco mobile - suona una chitarra elettrica che lancia fiamme (personaggio geniale incarnato dal musicista australiano iOTA).

Grazie all'apporto di acrobati del Cirque du Soleil, di atleti olimpici, di stuntmen e di pochissimi effetti speciali digitali, la coreografia e lo spettacolo sono garantiti a livelli di altissima professionalità e spettacolarità.

Il ritmo è incalzante e degno del William Friedkin di Il Braccio Violento della Legge, Vivere e Morire a Los Angeles e Jade.

Per quel che riguarda gli attori, Tom Hardy - nonostante alcuni dissidi col regista (dei quali comunque si è pentito) - si cala molto bene nel ruolo del protagonista, tanto da non far rimpiangere troppo Mel Gibson, che lo aveva personificato nelle tre pellicole precedenti.
C'è anche da dire che il Mad Max dell'inglese sembra un altro personaggio rispetto a quello dell'australiano d'adozione: d'altra parte era proprio l'intento di Miller quello di re-inventare la saga, a partire dal suo eroe.

Poi c'è Charlize Theron.
La sudafricana si inserisce a pieno titolo nel novero delle attrici in grado di essere credibili nella parte di eroine di action movie di fantascienza, in compagnia della Sigourney Weaver di Alien, della Linda Hamilton di Terminator e, più recentemente, della Jennifer Lawrence di The Hunger Games e della Daisy Ridley di Star Wars-Il Risveglio della Forza.

Rasata e senza un braccio, perde qualcosa della sua leggendaria bellezza; ciononostante riesce a rubare la scena a tutti con grinta e personalità, risultando il vero motore dell'azione.
La mancata candidatura agli Oscar per la sua prova è una nota stonata, ma il tempo saprà essere galantuomo con lei.

Detto questo, Mad Max: Fury Road è soprattutto un trionfo per il regista; che lo ha pensato nei minimi dettagli, ci ha creduto, ci ha messo se stesso, il suo entusiasmo, la sua esperienza.

"Non sei in un film, sei nella testa di George", ha sentenziato Hardy in un'intervista.

Volenti o nolenti, siamo finiti veramente nella testa di George Miller!
E abbiamo visto cose mirabolanti.

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mercoledì 16 marzo 2016

I CLASSICI: 300, PAZZIA? QUESTA È... LA REDAZIONE DI CINEMA A BOMBA!

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

USA, 2007
118'
Regia: Zack Snyder
Interpreti: Gerard Butler, Michael Fassbender, David Wenham, Lena Headey, Dominic West, Rodrigo Santoro, Peter Mensah.


300.
È il numero dei post pubblicati su questo blog, contando quello che state leggendo (per la cronaca, il numero 100 è stato sulle nomination per i premi tecnici degli Oscar 2013, mentre il 200° era la recensione di Hook-Capitan Uncino di Steven Spielberg).

E 300 è banalmente il film che abbiamo scelto per festeggiare con voi questo evento.
Quando ci siamo accorti del numero fatidico, l'accostamento è stato spontaneo, ma era comunque inevitabile che prima o poi dovessimo occuparci di una delle pellicole più influenti e discusse degli ultimi anni.

A maggior ragione in questi giorni nei quali stiamo aspettando il nuovo kolossal firmato dal suo regista, Zack Snyder, ossia l'attesissimo Batman v Superman, che ci auguriamo venga preso meno di mira dai critici.

Il giudizio su 300 da parte di molti di loro, infatti, si è soffermato soprattutto sui difetti: l'assenza di introspezione psicologica; il culto esagerato della perfezione fisica (gli eroi girano spesso a torso nudo con i muscoli definiti ben in evidenza); il manicheismo (tutti i buoni sono virili, leali, coraggiosi, mentre i malvagi sono specularmente deformi, storpi, viscidi, traditori, codardi, sessualmente ambigui o depravati); l'esaltazione della guerra (pacifisti, diplomatici, e in generale i personaggi più inclini al compromesso fanno una brutta fine e una brutta figura); la violenza e la crudezza di certe scene; la scarsa aderenza ai fatti storici...

[Per tacere dell'interpretazione grossolanamente politica che qualcuno ha voluto dare, arrampicandosi in parallelismi con le figure del Presidente USA George W. Bush e di quello iraniano Ahmadinejad, che ai tempi dell'uscita della pellicola erano - eufemisticamente - in freddissimi rapporti diplomatici.]

Principale imputato: lo stesso regista, che alle spalle non aveva una grande esperienza: il suo esordio era stato nel 2004 con Dawn of the Dead, non memorabile remake dell'omonimo film di George A. Romero (in Italia uscito nel 1978 col titolo di Zombi).

Sempre nel 2004 - lo stesso anno delle Olimpiadi di Atene - erano usciti Troy di Wolfgang Petersen con Brad Pitt, Eric Bana, Orlando Bloom e Diane Kruger e Alexander di Oliver Stone con Colin Farrell, Angelina Jolie e Jared Leto.
Non erano stati dei successoni, ma avevano avuto il merito di riaccendere l'interesse nei film epici ambientati nell'antica Grecia.

Nel 2005 aveva fatto faville, invece, il noir Sin City - diretto da Robert Rodriguez, Quentin Tarantino (in qualità di ospite, avendo girato solo una breve sequenza) e Frank Miller -, reso visivamente molto simile alle tavole della graphic novel dello stesso Miller dal quale era tratto tramite una tecnica detta Chroma Key - la stessa, per intenderci, utilizzata nelle previsioni meteo televisive americane - che consiste nel girare le scene davanti a uno sfondo blu o verde e nell'aggiungere in fase di post produzione particolari creati con la grafica computerizzata laddove c'era lo sfondo.

Sfruttando l'onda lunga dei film sopracitati, Snyder decise di trasporre 300 servendosi della medesima, innovativa tecnica di Sin City.

La storia, abbastanza liberamente tratta da un altro fumetto di Frank Miller, narra dell'eroica resistenza nel 480 a.C. di un esiguo numero i Spartani (secondo la tradizione, più o meno 300) che, guidati dal loro re Leonida e assieme a pochi altri alleati, riuscirono a costo della vita a rallentare l'avanzata del potente e numeroso esercito persiano di Serse presso la stretta gola delle Termopili.

Questo rallentamento avrebbe dato tempo alla lega delle città greche di riorganizzarsi e di riuscire ad approntare una risposta contro gli esausti invasori, sconfitti successivamente e definitivamente nella battaglia di Platea.

L'uso massiccio del Chroma Key ha permesso una certa fedeltà all'albo, almeno in termini grafici: il riadattamento fotogramma-per-fotogramma delle tavole dà la stupefacente sensazione che i disegni prendano vita.
Ogni singola scena ricorda, nei colori e nell'organizzazione dello spazio, il corrispettivo in formato cartaceo.

Poiché solitamente nei comics americani - e il 300 di Miller non fa eccezione - è difficile parlare di verosimiglianza e accuratezza storica, e tutto è esagerato (anatomie, scene di combattimento, dialoghi, trama...), quelle che sarebbero delle assurdità e delle incongruenze in una pellicola a carattere storico passano invece in secondo piano grazie alla natura esplicitamente "fumettosa" dell'opera originale, e quindi della sua versione per il grande schermo.

Liberato pertanto dai vincoli della fedeltà storica, il film viaggia a vele spiegate verso l'iperbole, trascinando con sé lo spettatore ammaliato dalla maestosità e dal dinamismo delle immagini, frutto di effetti speciali digitali sofisticati e di scelte registiche che da un lato strizzano l'occhio al pubblico e dall'altro risultano comunque meticolose e rigorose.

Gli episodi che rimangono più impressi - Leonida che caccia con una possente pedata il diplomatico persiano in un pozzo profondo, l'impeto dei soldati spartani che fa precipitare da un dirupo l'esercito avversario, i combattimenti tra gli schieramenti - infatti, sono sì violenti ma costruiti e pensati in modo tale da alternare movimenti scenografici a rallentamenti che fissano in modo quasi pittorico la scena.

È lo stile che gli studios cercavano per rendere finalmente cinematografiche le tavole dei comics.

Non per niente numerosissimi saranno subito gli imitatori e lo stesso Snyder continuerà il percorso intrapreso: a parte Sucker Punch (2011), scritto da lui, ha diretto in seguito Watchmen (2009, dall'omonima graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons), Il Regno di Ga'Hoole (2010, da racconti fantasy), l'ottimo Man of Steel-L'Uomo d'Acciaio (2013, su Superman), il suo seguito Batman v Superman: Dawn of Justice e dirigerà i successivi sequel tratti dalla serie della DC Comics Justice League.

Del seguito "zarro" 300-L'Alba di un Impero (2014) invece è solo produttore e sceneggiatore.
La sua assenza in regia si fa sentire: qualche cosa buona c'è, ma manca la ricerca della novità, la volontà di creare qualcosa di nuovo ed innovativo.

O perlomeno il coraggio di affidarsi a facce sconosciute ma funzionali: a 300 devono molto il suo protagonista (lo scozzese Gerard Butler), Michael Fassbender ( Hunger è uscito un anno dopo, la Coppa Volpi a Venezia è del 2011, mentre le nomination all'Oscar sono del 2014 e di quest'anno), Lena Headey (poi perfida Chersei Lannister di Game of Thrones-Il Trono di Spade).

Comunque 300 ha avuto il grande merito di aver reso cool a molti teenager la storia antica.
Filtrata, certo, attraverso una graphic novel e un rutilante spettacolo di intrattenimento; ma se molti conoscono le gesta di Leonida e dei suoi Spartani è grazie soprattutto a questo film.

E a frasi pompose e motivazionali - che dubitiamo i veri eroi abbiano mai pronunciato - quali:

Non c'è spazio per la tenerezza, non a Sparta. Non c'è posto per la debolezza. Solo i duri e i forti possono definirsi Spartani. Solo i duri. Solo i forti;
Ricordate questo giorno, uomini, perché questo giorno è vostro e lo sarà per sempre!;
Spartani! Preparate la colazione e mangiate tanto, perché stasera ceneremo nell'Ade!... e via dicendo.

A causa dell'euforia di questi giorni per i 300 post e dato che abbiamo appena visto l'omonima pellicola, non meravigliatevi quindi se, alla vostra eventuale domanda "Qual è il vostro mestiere?", noi risponderemo "Aù!Aù!".

Questa non è pazzia.
Questa è la redazione di CINEMA A BOMBA!
[Magari un po' esaltata per il traguardo raggiunto - e lo slogan sulla locandina non aiuta a smorzare l'entusiasmo.
Ma si sa, 300 è un numero evocativo...]

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domenica 6 marzo 2016

OSCAR 2016. IL CASO SPOTLIGHT, DAL PULITZER ALL'OSCAR

(Clicca sulla locandina per vedere il trailer). 

USA, 2015
129'
Regia: Tom McCarthy
Interpreti: Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, Liev Schreiber, Stanley Tucci, Billy Crudup, Brian d'Arcy James, John Slattery, Paul Guilfoyle, Richard Jenkins (non accreditato).


"Sono stato derubato della mia identità. Se Michael Keaton rapinasse una banca, la polizia arresterebbe me. [...] E' come guardarsi in uno specchio, ma senza avere il controllo della propria immagine."

Con queste lusinghiere parole il vero Walter "Robbie" Robinson, capo del team Spotlight, ha descritto la sensazione di vedere se stesso interpretato sul grande schermo dal mitico ex Batman.

Keaton ha studiato Robinson per mesi attraverso registrazioni audio e filmati video, imparando un po' alla volta il suo modo di muoversi e storcere la bocca, sorprendendosi del suo poco marcato accento bostoniano e imitandolo in maniera così accurata che lo stesso giornalista, dopo averlo incontrato la prima volta, pare gli abbia detto: "Ci siamo appena conosciuti: come fai a sapere così tante cose di me?!?"

Un'interpretazione sublime che tanti critici avevano indicato per un eventuale Premio Oscar, forse memori della clamorosa ingiustizia dello scorso anno, quando Michael - pur favoritissimo, con Birdman - si vide portar via la statuetta dall'Eddie Redmayne de La Teoria del Tutto.

E invece neppure una nomination, quest'anno.
Al suo posto sono stati candidati - come non protagonisti - Mark Ruffalo e Rachel McAdams: pur senza aver vinto, bravi entrambi (specie il primo), ma Keaton di certo avrebbe meritato di più.

Nessuno invece poteva prevedere una vittoria nella categoria più ambita: partito come semplice outsider, Il Caso Spotlight (titolo italiano stupidamente fuorviante: "Spotlight" era il nome del team investigativo, non del caso che gli fece vincere il Premio Pulitzer) ha sbalordito tutti soffiando l'Oscar per il miglior film a Revenant-Redivivo e Mad Max: Fury Road.

È piuttosto inusuale per una pellicola riuscire a vincere con due sole statuette (l'altra, più scontata, è stata per la miglior sceneggiatura): non succedeva dal lontano 1952, quando a spuntarla fu Il Più Grande Spettacolo del Mondo di Cecil B. DeMille.

Diretto da un ex attore di serie B passato alla regia, Il Caso Spotlight forse non è il film migliore dell'anno, ma è un bel film: coinvolgente e dal ritmo serrato, a metà strada tra Tutti gli Uomini del Presidente e Cronisti d'Assalto.

Vengono ripercorsi gli eventi che nel 2001 portarono la redazione del quotidiano Boston Globe a scoprire un'ampia serie di casi di abusi sessuali su minori da parte di membri deviati del clero cattolico (Boston, i cui abitanti sono in larga parte di origine irlandese, è una delle città più cattoliche degli Stati Uniti).

L'indagine fece molto scalpore anche perché venne alla luce la connivenza delle alte gerarchie ecclesiastiche, che per anni cercarono di insabbiare le vicende limitandosi a trasferire i carnefici in altre parrocchie, peggiorando ulteriormente la situazione: le statistiche sul numero delle persone coinvolte nello scandalo riportate alla fine della pellicola sono scioccanti.

Non si tratta né di un'opera a tesi anticattolica né di un'oratoria moralista, ma di un coraggioso e a tratti appassionante documento sul giornalismo investigativo americano, sulla difficoltà di scontrarsi con un potere istituzionalizzato e influente, sulla ricerca della verità in nome della giustizia.

La pellicola di McCarthy affronta un tema delicatissimo col giusto tatto e si appoggia a una squadra di attori in stato di grazia, inserendosi perfettamente nel filone dei grandi film di impegno civile, similmente a Il Ponte delle Spie di Spielberg (grazie proprio al quale Mark Rylance ha battuto Mark Ruffalo nella corsa all'Oscar).

Si discuterà ancora a lungo sulla scelta dell'Academy di premiare col più alto riconoscimento questo film sviluppato in modo tradizionale - i "buoni" sono integerrimi, vengono ostacolati dai "cattivi", ma alla fine prevalgono - anziché uno dei suoi più accreditati e meno convenzionali concorrenti, ma ciò non toglie che Il Caso Spotlight sia un'opera da vedere e da far vedere, anche e soprattutto a chi ha intenzione di intraprendere una carriera giornalistica.

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giovedì 3 marzo 2016

OSCAR 2016. UN' EDIZIONE CONFUSA

Dall'alto: Mark Rylance (attore non protagonista), Brie Larson (attrice protagonista), Leonardo DiCaprio (attore protagonista), Alicia Vikander (attrice non protagonista); ancora DiCaprio, tra Emmanuel Lubezki e Alejandro G. Iñárritu; l'affollata cerimonia di premiazione di Spotlight come miglior film (Michael Keaton al centro, Mark Ruffalo a destra). 


Parafrasando Agatha Christie: "...e poi non vinse nessuno."

L'edizione numero 88 degli Academy Awards passerà alla storia per essere stata una delle più incerte e confuse.
Sia chiaro, molti di coloro che a fine serata si sono portati a casa una statuetta lo meritavano, ma la sensazione è che si sia voluto accontentare un po' tutti.

Sono solo tre, infatti, le opere che hanno ricevuto, quest'anno, più di un Oscar: in totale ne sono state premiate ben 16; 13 delle quali, quindi, con un solo riconoscimento.
Col risultato che nessuna pellicola è davvero emersa.

Non è la prima volta. Anzi, ci sembra un trend - molto discutibile - degli ultimi anni: con le eccezioni di The Artist (nel 2012) e Birdman (lo scorso anno), non si sono più registrate vittorie nette.

Come si può notare scorrendo l'elenco dei vincitori, i veri eroi della serata di domenica sono stati principalmente due: Ennio Morricone e Leonardo DiCaprio.

Il grande compositore italiano ha finalmente conquistato l'Oscar che per troppi decenni gli era stato negato, se non alla carriera (nel 2007).
Una parte del merito va sicuramente a quel volpone di Quentin Tarantino, che - ormai accreditatosi come il nuovo Sergio Leone - ha voluto fortemente che il Maestro firmasse la colonna sonora del suo western The Hateful Eight.

Le straordinarie musiche di questo gagliardo ottantasettenne hanno fatto la storia del cinema, facendo sognare generazioni di spettatori.
L'Oscar più meritato dell'anno: complimenti, Signor Morricone!

Anche la leggendaria sfortuna dell'ex star di Titanic con le statuette, invece, è finalmente terminata: DiCaprio ha dovuto affrontare le condizioni estreme delle riprese di Revenant-Redivivo per coronare il proprio sogno.
Anche la Hollywood più snob si è dovuta inchinare: bravo Leo.

A proposito del film di Alejandro González Iñárritu, ci pare che il kolossal girato in Columbia Britannica (Canada) e Terra del Fuoco (nella parte argentina) sia stato il principale sconfitto della serata: partito come favorito, ha probabilmente patito la stroncatura di Variety - la rivista più influente di Hollywood - e si è visto soffiare il premio più importante.

Sembra proprio che, negli ultimi tempi, le pellicole che raccolgono il maggior numero di nomination alla vigilia arrivino al traguardo zoppe, come avevamo notato in questo precedente post.

Il regista messicano e il suo connazionale Emmanuel Lubezki possono però consolarsi: uno ha conquistato il secondo Oscar consecutivo come miglior regista - impresa riuscita prima ai soli John Ford e Joseph L. Mankiewicz -, l'altro addirittura il terzo Oscar di fila per la miglior fotografia (l'anno scorso con Birdman e due anni fa con Gravity).
Niente male davvero!

Il 2016 è anche il terzo anno di seguito che un cineasta del Messico viene premiato per la regia (prima di Iñárritu era stata la volta di Alfonso Cuarón nel 2014).

Questa, da un po' di tempo a questa parte, è diventata la categoria più internazionale: l'ultimo americano a vincere è stato in realtà una donna - l'unica nella storia dell'Academy Award - nell'ormai lontano 2010: Kathryn Bigelow, per The Hurt Locker.

Da quando è iniziato il nuovo millennio, gli Stati Uniti hanno vinto solo sei volte: dopo la Bigelow è stata infatti la volta dell'inglese Tom Hooper (Il Discorso del Re, nel 2011), del francese Michel Hazanavicus (il già citato The Artist, nel 2012), del taiwanese Ang Lee (Vita di Pi, nel 2013) e dei messicani.

Chi ha raggranellato più statuette di tutti (6 in totale) è stata la vera rivelazione dell'anno: Mad Max: Fury Road.
Il versatile e geniale cineasta australiano George Miller ha riportato alla ribalta il personaggio che a cavallo tra gli anni 70 e 80 aveva reso celebre Mel Gibson (in questo reboot è interpretato invece dall'imponente Tom Hardy, già Bane ne Il Cavaliere Oscuro-Il Ritorno).
Certo, si tratta solo di premi tecnici, ma per un film di genere è quasi una vittoria.
Probabilmente, però, sarà l'unico ad essere ricordato anche in futuro.

Tra i due litiganti il terzo gode, dice un famoso proverbio. E il terzo è Il Caso Spotlight, che però gode fino ad un certo punto.
Solo 2 Oscar: scontato quello per la sceneggiatura, clamoroso quello per il miglior film.
Da quanti anni non succedeva che una pellicola trionfasse con così pochi premi?

[Una risposta, in realtà, c'è: l'ultimo film a portare a casa solo due statuette - compresa quella più importante - è il tutt'altro che memorabile Il Più Grande Spettacolo del Mondo di Cecil B. DeMille. Correva l'anno 1952.]

Al di là del valore intrinseco dell'opera - una fedele ricostruzione della coraggiosa indagine giornalistica che portò la redazione del Boston Globe a smascherare alcuni gravissimi casi di abusi sui minori da parte di membri del clero cattolico - si ha l'impressione che si sia voluto dare un segnale politico.

Accettabile e condivisibile come tale, ma siamo sicuri che sia stata la scelta giusta?
Una competizione cinematografica - a qualsiasi livello - dovrebbe basarsi su parametri artistici, non ideologici.

C'è il rischio concreto che, passato il clamore mediatico, ci si imbatta in questa pellicola solo come risposta a domanda difficile in un quiz televisivo del futuro ("Chi vinse l'Oscar come miglior film nel 2016?").

Vorremmo poi far notare una curiosità: questo è già il secondo film consecutivo con protagonista Michael Keaton a vincere il premio più ambito dopo essere stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.

La nostra kermesse lagunare è in crisi da tempo, ma a quanto pare porta bene.
Per quanto concerne l'ex Batman, già protagonista di un nostro fortunato Speciale, sembra proprio che stia diventando un vero talismano, benché ancora una volta gli sia stata negata la statuetta come attore.
Quand'è che Hollywood si accorgerà del suo valore?

Al suo posto - Keaton in realtà non è stato neppure candidato - l'ha spuntata un po' a sorpresa Mark Rylance, che come non protagonista ha prevalso su Sylvester Stallone (il mitico Rocky può comunque consolarsi col suo Golden Globe).
Una bella notizia comunque per chi come noi ha avuto il piacere di vedere questo bravissimo attore inglese di formazione teatrale nel bel film di Steven Spielberg Il Ponte delle Spie.

Esiti non scontati anche in campo femminile, ma giustissimi: delle due vincitrici, vedrete, sentiremo ancora parlare.

La giunonica "cantattrice" Brie Larson (Room) è già stata definita "l'anti Jennifer Lawrence" per il suo stile di vita sobrio, tutt'altro che da diva.
In realtà le due - entrambe ex ragazzine prodigio - sembrano essere amiche; ma intanto, al primo confronto, la prima ha battuto la più titolata collega.
Che sia l'inizio di una sana rivalità professionale?

La svedese Alicia Vikander (The Danish Girl) è riuscita a prevalere in una delle categorie più incerte dell'anno, quella della migliore attrice non protagonista

L'attuale fiamma di Michael Fassbender - candidato anche lui, come attore protagonista - si è dovuta scontrare con le più celebri e molto talentuose Jennifer Jason Leigh (The Hateful Eight), Rooney Mara (Carol), Rachel McAdams (Spotlight), Kate Winslet (Steve Jobs. Era la favorita della vigilia, essendo fresca vincitrice del Golden Globe).
Forse, però, ha vinto per il film sbagliato: risulta più convincente nella parte di un robot dotato di sentimenti quasi umani in Ex Machina.

Quest'ultimo è stato realizzato con un budget piuttosto limitato (15 milioni di dollari), ma è riuscito nell'incredibile impresa di battere colossi del calibro di Star Wars-Il Risveglio della Forza (200 milioni), Mad Max: Fury Road (150 milioni), The Revenant (135 milioni) e The Martian (108 milioni) nella categoria dei migliori effetti speciali!

Pronostici della vigilia rispettati invece per Inside Out - dodicesimo titolo Pixar a vincere un Oscar, proprio nell'anno in cui ricorre il trentesimo anniversario della casa di produzione -, Il Figlio di Saul - seconda dell'Ungheria per il film straniero, 34 anni dopo il Mephisto di István Szabó con un maestoso Klaus Maria Brandauer -, Amy - documentario sulla vita di Amy Winehouse già acclamato a Cannes 2015.

Degne di nota, però, anche le categorie cosiddette minori.
Tra i cortometraggi è stato premiato Stutterer, opera prima del giovane irlandese Benjamin Cleary.

Tra i cortometraggi animati,l'interessante Historia de un Oso-Bear Story, atto d'accusa del regime di Augusto Pinochet con protagonisti degli orsi. È la prima pellicola del Cile a vincere un Academy Award.

Tra i cortometraggi documentari, di forte significato è l'affermazione di Sharmeen Obaid-Chinoy con A Girl In The River: The Price Of Forgiveness: per la regista/attivista/giornalista pachistana - da sempre impegnata nel denunciare la condizione delle donne nel proprio Paese - è il secondo Oscar, dopo quello ottenuto per Saving Face nel 2012.

Tutto sommato, questa edizione 2016 ha messo in luce i talenti individuali - Morricone, DiCaprio, Brie Larson, Alicia Vikander, Rylance, Iñárritu, Lubezki, George Miller... - mettendo in secondo piano i film in sé.
Il che non è proprio il massimo per chi vive di cinema.

L'Academy - ancora scossa dalle polemiche innescate soprattutto dagli attori afroamericani per la mancanza per il secondo anno consecutivo di candidati di pelle scura nelle categorie recitative - è stata più titubante che mai nell'assegnare i premi alle pellicole: la paura di accendere ulteriori proteste ha partorito verdetti che hanno cercato di non scontentare nessuno.

Ma questa mancanza di coraggio, ripetuta già da anni, rischia di minarne credibilità e autorevolezza.

A tutto vantaggio dei "rivali" Golden Globe, i cui giurati sembrano avere le idee più precise ed essere più attenti ai gusti e al mercato internazionali (i riconoscimenti vengono decisi pur sempre da giornalisti della stampa estera).
O forse hanno dimostrato solo più furbizia.

Il problema della rappresentatività in seno all'Academy, comunque, è reale, e una profonda riforma in tal senso è auspicabile.

Premi Oscar, tornate a farci sognare!

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