David Lynch durante le riprese dell'ultima stagione di
Twin Peaks.
David Lynch è morto.
Una perdita incommensurabile per il mondo del cinema - è stato uno dei migliori e più importanti cineasti di tutti i tempi - e non solo.
Classe 1946, originario di Missoula (Montana), King David era l'ultimo Uomo del Rinascimento.
Dei suoi film era regista, sceneggiatore, produttore,
sound designer, ma occasionalmente anche attore (pure per conto terzi: solo un paio di anni fa aveva interpretato
John Ford in
The Fabelmans di Steven Spielberg), direttore di fotografia, montatore, compositore.
Per non parlare dei suoi lavori extra-cinematografici: era un apprezzato pittore, fotografo, arredatore, vignettista; aveva realizzato alcuni dischi musicali, prima come produttore e paroliere, poi come musicista d'avanguardia, infine come cantautore
sui generis; aveva aperto un esclusivo
club a Parigi e fondato un'associazione di grande successo che promuove la meditazione trascendentale.
Fu tra i primi cineasti di successo a intuire le potenzialità dell'allora "snobbatissimo" mezzo televisivo, cambiando le regole del gioco col seminale
serial Twin Peaks, un
cult ancora oggi, a distanza di 35 anni.
Apprezzatissimo in Europa, ma Hollywood - che era diventata la sua casa - non lo capì mai davvero: vinse la Palma d'Oro a Cannes (dove fu insignito 2 volte anche come miglior regista) e il Leone d'Oro a Venezia (alla carriera), ma non ottenne mai un Oscar, nonostante diverse candidature.
Si dice che Fellini girasse film ispirati ai propri sogni; Lynch invece metteva in immagini i propri incubi, e li condivideva col mondo.
Le sue pellicole erano quasi sempre così ermetiche da risultare incomprensibili, ma lui non ci badava: dirigeva film come un pittore dipinge quadri, incurante del significato, ma interessatissimo alla reazione che avrebbero suscitato negli spettatori.
Vi lasciamo qui sotto la sua filmografia principale con le nostre recensioni, consci che non basteranno a definire la grandezza della sua opera, unica nella storia del cinema.
Grazie di tutto, David.
Eraserhead (1977)
Un uomo dai capelli ritti (Jack Nance) rimane sconvolto quando la sua ragazza partorisce un esserino mostruoso.
Impossibile raccontare per esteso la trama dell’opera prima di David Lynch, girata tra mille difficoltà con un budget minimo: si tratta per lo più di scene criptiche e oniriche che creano angoscia e disagio, metaforizzando la paura della paternità.
Espressionista, con una fotografia sgranata in bianco e nero, divenne il film preferito da Stanley Kubrick e un piccolo
cult nei cinema
d’essai.
Delirante, ma già “lynchiano” al 100%.
The Elephant Man (1980)
Un uomo deforme ma dall’animo gentile (John Hurt) viene portato via da un circo da un medico (Anthony Hopkins) che fa di tutto per farlo diventare un gentiluomo inglese.
Dopo diversi cortometraggi e lo sperimentale
Eraserhead, David firma la sua prima regia importante sotto l’ala del produttore Mel Brooks (sì, proprio quello di
Frankenstein Junior!).
Ispirato ad una storia vera, il film è l’occasione per il regista di mostrare talento e sensibilità raccontando la vicenda di un “diverso” migliore di tanti “normali”.
Buoni sentimenti sì, sentimentalismo no.
Ebbe numerose
nomination agli Oscar, comprese quelle per miglior film e regia.
Dune (1984)
Durante una guerra intergalattica tra due casate rivali, un giovane duca (Kyle MacLachlan) diventa la guida di un popolo misterioso che vive nel desertico pianeta Dune difendendo una potente spezia.
Tratto dall’omonima saga letteraria
cult di Frank Herbert e sceneggiato dallo stesso Lynch, è un film atipico per il regista.
Costò svariati milioni di dollari e fallì miseramente al botteghino, probabilmente perché risulta incomprensibile o quasi, specie per chi non ha letto il complesso romanzo di partenza.
Tuttavia le scene, i costumi, le creature (di Carlo Rambaldi), gli effetti speciali e la regia visionaria lo rendono uno strano film d’autore.
Vero che ora siamo abituati
all'adattamento di Denis Villeneuve, ma questo primo tentativo di mettere in immagini il famoso romanzo
sci-fi sarebbe da rivalutare.
Velluto Blu (1986)
Dopo aver trovato per caso un orecchio mozzato, un giovane (Kyle MacLachlan) si improvvisa detective e scopre che un gangster psicotico (Dennis Hopper) ricatta una cantante di night club (Isabella Rossellini).
Quarto lungometraggio che confermò il talento visionario del regista e fissò definitivamente i canoni del suo personalissimo stile, fece scandalo e divise la critica tra detrattori veementi e adoratori entusiasti.
Thriller inquietante e onirico, volutamente provocatorio, racconta una discesa agli inferi con catarsi finale che si può leggere come metafora del difficile passaggio dall’adolescenza all’età adulta, ma anche come riflessione sul cinema e la sua funzione voyeuristica.
Disturbante per chi ama i film classici e lineari, affascinante per chi accetta di entrare nel meccanismo della messinscena.
Numerosi i momenti di grande cinema, perfetta la colonna sonora
vintage.
Hopper disegna un cattivo da antologia.
Cuore Selvaggio (1990)
Due sbandati (Laura Dern e Nicolas Cage) attraversano gli States per fuggire alla possessiva madre di lei, che assolda un investigatore privato (Harry Dean Stanton) e un gangster perché li rintraccino.
Grottesco
noir on the road, con punte di
splatter estremo, vinse a sorpresa la Palma d’oro a Cannes e confermò David Lynch come il regista più intelligente e provocatorio del nuovo cinema americano.
A conti fatti, si può considerare anche come un precursore del
pulp tarantiniano.
Rispetto al romanzo di Barry Gifford da cui è tratto, il regista ha accentuato i toni onirici e fiabeschi, aggiungendo iterati riferimenti a Elvis e a
Il Mago di Oz, e ribaltando completamente il finale.
Non è il film migliore di Lynch, ma è pieno di sequenze memorabili (la serenata di Cage in discoteca e l’impressionante incidente automobilistico notturno, solo per citarne due, peraltro assenti nel libro).
Solito, grande cast in cui si distingue il perverso/simpatico Dafoe.
Twin Peaks (1990-91)
La misteriosa uccisione di una ragazzina (Sheryl Lee) scuote Twin Peaks, paesino di provincia i cui abitanti nascondono ipocrisie e oscuri segreti.
Viene mandato a investigare un agente dell'FBI dai metodi non convenzionali (Kyle MacLachlan).
Storia di delitti e intrighi in una provincia montana americana, fu il
serial più importante della storia della televisione (almeno fino a
Lost).
Rivoluzionò i canoni del genere annullando il confine tra grande e piccolo schermo, segnando l’apice della popolarità del grande David Lynch che l’ideò col co-sceneggiatore Mark Frost (vedi il
dittico dei Fantastici 4) e diresse alcuni episodi.
Alternando momenti di spavento e mistero a scenette quasi demenziali di umorismo surreale, costrinse gli spettatori di tutto il mondo a scervellarsi per rispondere alla domanda: "Chi ha ucciso Laura Palmer?"
Operazione di marketing geniale, ma in retrospettiva molte delle puntate che non vedono il coinvolgimento diretto di Lynch e Frost risultano deboli.
Musiche indimenticabili di Angelo Badalamenti, collaboratore storico del regista, e MacLachlan nel ruolo della vita.
Tra i comprimari spicca lo spassoso Albert impersonato da Miguel Ferrer.
Twin Peaks: Fuoco Cammina con Me (1992)
Indagando sulla morte di una giovane, due agenti dell’FBI (Chris Isaak e Kiefer Sutherland) scompaiono nel nulla. Un altro agente (Kyle MacLachlan) scopre di avere poteri paranormali.
Laura Palmer (Sheryl Lee), studentessa modello di giorno, conduce una vita dissoluta di notte.
Dopo un successo così clamoroso, era ovvio che David tornasse a Twin Peaks; questa versione cinematografica è però un
prequel, cioè un racconto degli antefatti della vicenda.
Un fiasco totale: non risolve le lacune della serie, aggiungendone anzi di nuove, e ignora gran parte dei personaggi principali.
Il prologo è magistrale (una sequenza su tutte: la donna vestita di rosso che all’aeroporto mima messaggi in codice), poi il film diventa ridondante quando si concentra sul personaggio di Laura.
Finì per alienare critici e fan, che contestarono anche il tasso di violenza, nonostante qualche espediente sonoro di gran pregio.
Strade Perdute (1997)
Il sassofonista Fred (Bill Pullman) finisce in carcere per l’omicidio della moglie (Patricia Arquette), ma in cella si trasforma in un giovane meccanico (Balthazar Getty).
Questi, tornato a casa, instaura una pericolosa relazione con la pupa di un gangster (Robert Loggia), identica alla moglie del sassofonista.
A tirare le fila dell’intera vicenda sembra essere un misterioso omino ubiquo (Robert Blake).
Dopo il successo planetario di
Twin Peaks, David torna al cinema con una delle sue opere più riuscite e rappresentative, probabilmente la più sottovalutata.
Il regista cerca di dare vita all’inconscio, ad un mondo onirico e irrazionale, inspiegabile come la trama del film, scritta a quattro mani col romanziere Barry Gifford (
Cuore Selvaggio).
Immersa in un’atmosfera irreale, ambigua e plumbea (un po’ il marchio di fabbrica di Lynch), la pellicola si snoda incoerentemente come un incubo ad occhi aperti privilegiando lo stile alla storia, a riprova che il geniale cineasta americano era soprattutto un fabbricante di sensazioni, di emozioni forti.
Tra gli attori, perfetti Pullman e la Arquette e indimenticabile l’uomo misterioso impersonato da Blake.
Ultimo film per Jack Nance e Richard Pryor: il primo era stato con David fin dall'esordio di
Eraserhead, il secondo - celebre
stand-up comedian - è in uno dei suoi rari ruoli seri.
Una Storia Vera (1999)
Un anziano agricoltore (Richard Farnsworth) attraversa gli USA alla guida di un tagliaerba per poter rivedere il fratello malato (Harry Dean Stanton).
A 53 anni, sorprendentemente David Lynch cambia: realizza un film lento, molto ortodosso.
Bello, poetico e commovente, sereno e amaro allo stesso tempo, comincia e si conclude con la medesima contemplazione di un cielo stellato.
Pur senza rinunciare al proprio stile, ma lontano dalle provocazioni e dagli stravolgimenti che hanno fatto la sua fortuna, il regista mette parallelamente a confronto l’autunno della natura con l’inverno della vita, vincendo la scommessa di dimostrarsi un autore anche sensibile.
Bravissimo il veterano Richard Farnsworth nel ruolo principale.
Mulholland Drive (2001)
Hollywood: un’aspirante attrice (Naomi Watts) conosce una ragazza scampata a un incidente automobilistico (Laura Harring) e cerca di aiutarla a ricostruirne l’identità perduta.
Parallelamente, un regista (Justin Theroux) è vessato da alcuni gangster.
Premiato per la regia al Festival di Cannes e nominato agli Oscar nella medesima categoria, segna il ritorno di David Lynch al suo stile più personale, dopo la parentesi lineare e “moderata” di
Una Storia Vera.
Il regista riprende e amplia il discorso da dove l’aveva lasciato con
Strade Perdute: demolizione degli schemi, secondarietà della storia, perdita d’identità dei protagonisti.
Nella consueta atmosfera plumbea, tra eccessi e provocazioni, violenza ed enigmi inestricabili, cercare di dare un senso alla trama è inutile: il cinema di Lynch non ha bisogno di dar risposte, ha il solo scopo di trasmettere sensazioni violente, di scuotere lo spettatore, di mostrare (metaforicamente) la perdita di idee del cinema contemporaneo.
Considerato da alcuni critici come uno dei migliori film della storia del cinema: non esageriamo, ma è di certo l'ultimo grande lungometraggio di David e ha due protagoniste memorabili (più brava Watts, più sensuale Harring).
INLAND EMPIRE (2006)
Una famosa attrice (Laura Dern), impegnata nelle riprese di un film maledetto, perde progressivamente il senso della realtà e la propria identità.
Cinque anni dopo
Mulholland Drive e diversi progetti “minori” (cortometraggi, animazioni, serie tv, album musicali...), Lynch torna al cinema con un film a basso costo, girato interamente con una videocamera digitale a mano che conferisce all’immagine un’accentuata sgranatura.
E’ forse, insieme all’iniziale
Eraserhead, la sua opera più estrema, impegnativa anche per i suoi fan più accaniti: la durata è protratta per ben tre ore, la matassa narrativa inestricabile, la galleria dei personaggi eccessiva.
Non mancano rimandi e autocitazioni, come gli estratti da
Rabbits, una sua bizzarra
sit-com su una famiglia di conigli antropomorfi.
Come è più di prima Lynch si diverte a spiazzare gli spettatori lasciando molte domande irrisolte e pochi indizi: può essere considerato un genio o un folle, si può amarlo o odiarlo, ma in fondo è un regista che usa il cinema come un pittore usa il pennello sulla tela.
INLAND EMPIRE -
sic, tutto in maiuscolo - è soprattutto un'opera-tributo all'ottima Laura Dern (alias Ellie di
Jurassic Park), musa "lynchiana" il cui valore aggiunto è paragonabile a quello di Uma Thurman in
Kill Bill di Tarantino.
Twin Peaks: Il Ritorno (2017)
Per ulteriori dettagli vi rimandiamo alla
nostra precedente recensione.
Contro ogni previsione, a distanza di 25 anni David ritorna alla serie che lo aveva consacrato, ma stavolta scrive - in coppia col fidato Mark Frost - e dirige tutti gli episodi, approcciandosi alla materia come se fosse un lungometraggio suddiviso in capitoli piuttosto che come un telefilm a puntate.
Osannata dalla critica come e forse più delle precedenti, questa terza stagione risolve alcuni dei misteri rimasti in sospeso e ne aggiunge di nuovi, mentre i personaggi storici vengono affiancati da numerose
new entry (tra queste, la più significativa è Laura Dern che dà finalmente il volto a Diane).
E' il canto del cigno di Lynch, la sua ultima opera, la chiusura del cerchio di una carriera che non ha eguali nella storia del cinema (e della tv).
Quanto ci mancherai, David.
PS: cogliete l'occasione per rileggere le recensioni che avevamo fatto ad alcuni cortometraggi del nostro! Le trovate qui sotto:
Boat + Lady Blue Shanghai + 3RS
Idem Paris
The Story of a Small Bug
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